a cura del Dr. Prof. Gen. Salvatore Santo Gallo
Il dazio sul macinato aveva vigore solo in alcune provincie dello Stato Pontificio come per esempio, nelle Marche e a Camerino, dove venne esteso con il M. P. del 1816; d’altra parte anche la misura dell’imposizione non era eguale dovunque.
Con Pio VIII gli si dette una migliore regolamentazione e, dopo i fatti del 1831, venne concesso in appalto, ma l’aliquota dell’imposta fu ridotta della metà. Dopo la momentanea abolizione operata il 9 gennaio 1849, il dazio venne ripristinato col 1° dicembre 1849 e, con notificazione 1° gennaio 1853, venne stabilito in misura uniforme per le provincie e cioè sulla base di baiocchi 76 per ogni rubbio di libbre 640. Esso costituiva uno dei più forti cespiti per l’erario; infatti nel 1858 dette, solo per Roma e l’Agro Romano, un incasso di 372.000 scudi.
Anche i dazi di consumo non avevano generale applicazione e generalmente mancavano dove esisteva il dazio sul macinato; infatti quando Pio VII estese questo alle Marche e a Camerino, abolì il dazio. Dopo il 1831 alcuni dazi di consumo vennero appaltati e dati in amministrazione cointeressata. Dopo la restaurazione del 1849 i dazi di consumo o non esistevano, come per esempio nei piccoli centri, o erano minimi nelle città e limitati al vino, agli spiriti, alla carne e al pesce. Il vino, che era il più colpito, pagava solo tre lire e 10 centesimi per ogni centoventi litri e, quando negli ultimi tempi la tassa fu spinta a lire 4,25, si temette una sommossa.
Con l’Editto Antonelli del 7 febbraio 1852 venne poi introdotto un dazio di consumo sui generi coloniali, quali lo zucchero, il caffè, il tè, il cacao, ecc. che fu regolato da un apposito regolamento.