Dal volume “Un’altra Calabria”
a cura del Dr. Prof. Gen. Salvatore Santo Gallo
“Non so leggere”. Fu questa l’incredibile risposta datami dal mio giovane interlocutore in un giorno del lontano 1955. All’epoca, tenente agli esordi della carriera, prestavo servizio presso il Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza del capoluogo lombardo. Milano non era la metropoli cosmopolita che è adesso, la capitale della moda o la sede di imperi televisivi, ma era proprio lì, all’ombra della Madonnina, che batteva il cuore pulsante di un’Italia che, dopo il naufragio bellico, anelava il riscatto morale e vi si adoperava con passione ed ingegno. L’operosità ambrosiana risuonava all’epoca come un richiamo fascinatorio, sopratutto là dove la guerra era riuscita a sommare miseria alla povertà e, benché a molti l’idioma meneghino non dovesse suonare molto più familiare di quello tedesco o americano, la via che conduce dal profondo Sud verso le industrie lombarde rimaneva, nell’immaginario collettivo di gran parte dei meridionali, assai prossima a quella che mena all’Eldorado.
Fu così, dunque, che una nebbiosa mattina di novembre, si presentò nel mio ufficio un contadino “paesano”, di qualche anno solo più giovane di me. Tempo addietro i suoi genitori si erano rivolti ai miei, pregandoli di suscitare il mio interessamento affinché vedessi cosa si poteva fare per trovare a Micuzzo un posto di lavoro al Nord e preferibilmente a Milano, visto che a lui, Micuzzo, non garbava più lavorare la terra e, s’intende, non per mancanza di lena, ma perché aveva sentito dire da certi suoi compari che al Nord c’erano grandi industrie e lavoro per tutti e ci si poteva vivere benissimo senza spaccarsi la schiena e che, insomma, bisognava necessariamente provare a cambiare vita. Avevo perciò fatto qualche ricerca comunicandone l’esito ai miei genitori affinché ne riferissero a Micuzzo, invitandolo a venire quanto prima su a Milano.
Così adesso era qui. Gli avevo spiegato cosa si era trovato per lui e mi ero anche sforzato di fargli capire che non c’era nulla di sicuro, che si trattava solamente di un paio di colloqui dai quali tuttavia avrebbe potuto sortire qualcosa di buono. Mi aveva ascoltato con grande attenzione ed alla fine si era profuso in prolungati ringraziamenti. Prima di congedarlo gli avevo indicato come fare per arrivare all’appuntamento senza perdersi: “Scendi giù e, uscito dal portone della caserma, imbocca la sinistra e tieniti su via Fabio Filzi fino a quando non arrivi in un grande spiazzo vicino alla stazione, dove c’è il capolinea dei tram. Prendi il numero 5 e poi chiedi al conducente di indicarti la fermata di via … Scendi lì mi raccomando, il posto dove ti devi presentare è lì a due passi”. “Non dubitate, farò come dite voi” aveva risposto fiducioso e sorridente Micuzzo. Già fuori dall’ufficio, sul corridoio, lanciandogli un ultimo saluto con la mano, gli avevo gridato “Fammi sapere poi”.
Ero tornato alle mie occupazioni, certo di non rivedere più Micuzzo, almeno fino al giorno dopo, quando probabilmente mi avrebbe dato sue notizie. Invece, dopo non più di dieci minuti, vedo ricomparirne la sagoma dietro la porta dell’ufficio, rimasta socchiusa. Ha l’aria mogia questa volta e quasi si vergogna a bussare. “Vieni dentro Micuzzo” gli dico. “Cosa è successo, hai dimenticato qualcosa? Mi avevi assicurato di avere capito perfettamente le mie indicazioni ed ora sei di nuovo qui… perché? C’è qualcosa che non va? Ti ho dato anche i soldi per il biglietto del tram … forse non vuoi più cercare lavoro a Milano?”
“No questo mai!” ribatte prontamente Micuzzo quasi offeso dalla mia incauta supposizione. Poi, un po’ esitante, guardandosi i polpastrelli, farfuglia imbarazzato: “è che solo che coi tram …”
“E’ il numero 5 – gli rispondo – anche se non è al capolinea non ti devi preoccupare, arriverà certamente da un momento all’altro”.
“Si, no, non è questo – replica sempre più confuso Micuzzo – è che ce ne sono troppi“.
“Va bene – tento di spiegargli – ma ogni mezzo ha un numero diverso, per cui è sufficiente che tu lo legga sul fianco del tram oppure sull’insegna posta al capolinea”.
Per un attimo Micuzzo sembra concentrarsi intensamente sul palmo delle proprie mani. Poi alza il capo e confessa risoluto: “Non so leggere”..