Dal volume “Carlo Magno” di Alessandro Barbero, Ed. Laterza, Bari 2002

a cura del Dr. Prof. Gen. Salvatore Santo Gallo

Al tempo di Carlo Magno le prestazione cui erano tenuti gli abitanti dell’impero erano direttamente finalizzate al funzionamento dell’amministrazione, e non implicavano mai il versamento di somme destinate a confluire, senza destinazione specifica, nel tesoro imperiale.

Dobbiamo dedurre che il fisco nel senso nostro, che è anche quello romano, aveva cessato di esistere? Recentemente gli storici della cosiddetta scuola fiscalista, che gli avversari preferiscono chiamare iper – romanista, hanno sostenuto che l’imposta fondiaria antica, da cui gli ultimi imperatori romani traevano gran parte dei loro redditi, non era affatto scomparsa, e hanno preteso di ritrovarne le tracce nella documentazione carolingia, a costo d’una sistematica forzatura del lessico. Ora, è vero che la legislazione di Carlo Magno si preoccupa molto dei pagamenti, chiamati censi, cui un gran numero di sudditi sono tenuti nei confronti del re, ordinando «che nessuno osi dimenticare il censo che deve pagare», «che il censo regale sia pagato ovunque è dovuto, sia quello personale, sia quello per le terre», «che chiunque deve pagare il censo regio lo paghi nello stesso luogo in cui suo padre e suo nonno erano soliti pagarlo». Ma in realtà i censi sono semplicemente i canoni annui pagati sia dagli «uomini liberi che possiedono in precaria i nostri beni e debbono perciò un censo», sia dagli affittuari contadini insediati su terra fiscale, sia dai liberti e schiavi pubblici che in aggiunta all’affitto debbono un censo ricognitivo della loro dipendenza personale.

Certo, ci sono anche aspetti del censo che possono avvicinarlo a una specie d’imposta; ad esempio il fatto che in certi casi non è riscosso su terre fiscali, ma su terre ecclesiastiche.