Dal volume “L’Amministrazione dello Stato Pontificio dal 1814 al 1870” del Prof. Alfonso Ventrone, ediz. Universitarie, Roma

a cura del Dr. Prof. Gen. Salvatore Santo Gallo

Col motu proprio pontificio del 1816 si dichiarò che i dazi doganali sarebbero stati eguali per tutto lo Stato, sulla base di una tariffa che era stata pubblicata il 1° dicembre 1915. Fondamento di questa tariffa era il sistema protettivo. Essa era costituita da un repertorio redatto in forma troppo semplice per cui gli oggetti e merci, non denominati in tariffa, dovevano riferirsi alle due classi di “lavorato semplice” e di “lavorato riunito con altri generi”. La tassazione si effettuava a misura o a peso e vi era aggiunta la sopratassa del decimo di beneficenza a favore dell’Istituto di carità. Il 7 giugno la tariffa fu modificata per limitare l’importazione ed agevolare così l’industria, diminuendo nel contempo la fuoriuscita della valuta. Ma questi aumenti a vari generi, invece di raggiungere lo scopo voluto, non fecero che incrementare il contrabbando. Il 28 aprile 1830, con Editto del Tesoriere Mattei, fu pubblicata una nuova tariffa redatta in forma più razionale e distinta in quattro parti: sostanze animali, vegetali, minerali e manifatture. Alla misura come base di riscossione, fu sostituito il peso e il numero, per le merci ed i generi che potevano andarvi soggetti, e fu soppressa l’imposta del decimo di beneficenza. Per i cereali e per il ferro semigreggio si pagava in misura differente, a seconda che si trattasse delle provincie dell’Adriatico o del Tirreno. Era proibita l’introduzione dei generi oggetto di privativa ed anche di altri tra i quali le armi, i medicinali composti ed i libri, che non potevano sdoganarsi senza il permesso delle autorià ecclesiastiche. Questa tariffa, a tasse elevatissime, subì in seguito alcune variazioni, specialmente con gli Editti 1° giugno 1855, 7 maggio 1856 e 26 marzo 1857, ma queste variazioni non raggiunsero però lo scopo di fare cessare il contrabbando, che era ormai estesamente radicato. In aggiunta ai dazi doganali si riscuoteva la così detta tassa di barriera sui carri, sulle carrozze e sulle bestie da tiro o da soma che venivano importati, a meno che non fossero introdotti con riserva di tornare all’estero.

A seconda della maggiore o minore facoltà di fare operazioni, le dogane si distinsero in dogane di riscossione, di semiriscossione e di bollettone. In prova del pagamento del dazio veniva apposto alle merci un bollo che ne legittimava la circolazione, senza che avessero più bisogno di bolletta. Tanto all’importazione che all’esportazione le merci, di regola, salvo poche eccezioni, dovevano essere dichiarate per iscritto e su carta bollata. I depositi di merci erano limitati alle dogane di riscossione. Le merci estere potevano stare in deposito gratuitamente, ma dopo un mese pagavano mezzo quattrino al giorno per ogni cento libbre di peso. Le merci nazionali e quelle daziate potevano restar un solo giorno, dopo il quale pagavano la tassa in misura doppia. Presso la dogana di Bologna vi era un sistema speciale di deposito, conosciuto sotto il nome di “magazzini di assegna”, che corrispondeva a quello dei depositi doganali in magazzini dati in affitto. Aveva un carattere speciale, perché non corrispondeva al sistema generale dei depositi doganali, il cosiddetto emporio fittizio, il quale, sebbene di proprietà dello Stato, veniva messo a piena disposizione dei commercianti che, in luogo di un canone di affitto, pagavano la tassa di magazzinaggio.