Dal “De Re Publica” – Libro II, 30 di Marco Tullio Cicerone – traduzione di Concetto Marchezi
a cura del Dr. Prof. Gen. Salvatore Santo Gallo
La virtù, se conosciuta soltanto in teoria e non esercitata nella pratica, non ha alcun valore: a differenza infatti delle altre arti che sussistono teoricamente in chi le possiede, quando anche non siano applicate, la virtù esiste solo in quanto è attiva, ed essa si esplica sopratutto nel governo della cosa pubblica e nell’attuazione, a fatti non a parole, di quei principi che costoro proclamano nel chiuso delle loro scuole. Non v’è affermazione filosofica, rispondente a giustizia e a onestà, che non abbia origine e conferma in coloro che stabilirono le leggi negli Stati. Donde nascono infatti il senso della religiosità e l’osservanza del culto? Donde hanno origine il senso della giustizia e dell’uguaglianza di diritti, il rispetto verso la parola data e verso noi stessi, il ritegno e l’odio per tutto quanto è turpe e malvagio, il desiderio della lode e della onorabilità? Donde la forza d’animo nel tollerare fatiche e pericoli? Certamente da coloro che, dopo avere appreso le norme che regolano la vita sociale, parte ne confermarono con i loro costumi, parte ne sancirono con le leggi. Si racconta anzi che Senocrate, uno dei filosofi più autorevoli, a chi gli chiedeva quale insegnamento i suoi discepoli traessero dalle sue dottrine, rispondesse che essi erano indotti a fare spontaneamente quanto loro imponevano le leggi. Quel cittadino dunque, che con l’autorità e il rispetto delle leggi costringe tutti ad osservare quei principi, che i filosofi con i loro ragionamenti possono a mala pena inculcare a pochi, è senz’altro da anteporre a quegli stessi maestri che trattano tali questioni. Quale loro ragionamento sarà infatti tanto perfetto che possa essere anteposto ad uno Stato bene ordinato per istituzioni e costumi?