a cura del Dr. Prof. Gen. Salvatore Santo Gallo

Nelle pagine di Piero Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, 4 edizione, Firenze 1959, si legge l’esaltazione del ruolo nobile e difficile del magistrato, ma anche la critica severa dei suoi vizi.

“L’elogio non va alle leggi, ma alla condizione umana del magistrato italiano: a quest’ordine di asceti civili, condannati, in una società sempre più sprezzante dei valori morali, alla solitudine, all’isolamento, in certi periodi anche alla miseria ed alla fame, e tuttavia capaci di rimanere con dignità e discrezione al proprio posto anche in tempi di generale rovina, per cercar di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà” (dalla Prefazione della terza edizione).

“La missione del giudice è così alta nella nostra estimazione, la fiducia in lui ci è così necessaria, che le umane debolezze, che non si notano o si perdonano in ogni altro ordine di pubblici funzionari, sembrano inconcepibili in un magistrato. Non parliamo della corruzione o del favoritismo, che sono delitti; ma anche le più lievi sfumature di pigrizia, di negligenza, di insensibilità sembrano, quando si trovano in un giudice, gravi colpe” (pp. 255 e 256).

“Il dramma del giudice è la solitudine: perchè egli, che per giudicare dev’essere libero da affetti umani e posto un gradino più su dei suoi simili, raramente incontra la dolce amicizia che vuole spiriti allo stesso livello e, se la vede che si avvicina, ha il dovere di schivarla con diffidenza, prima di doversi accorgere che la muoveva soltanto la speranza dei suoi favori, o di sentirsela rimproverare come tradimento alla sua imparzialità” (p. 347).

“Il vero pericolo (per il magistrato) non viene dal di fuori: è un lento esaurimento interno delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perchè non turba il quieto vivere e perchè la intransigenza costa troppa fatica (…). La pigrizia porta ad adagiarsi nell’abitudine, che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi della umana sensibilità: al posto della pungente pietà che obbliga lo spirito a vegliare in permanenza, subentra con gli anni la comoda indifferenza del burocrate, che gli consente di vivere dolcemente in dormiveglia. Anche le raccomandazioni, che non hanno presa sui magistrati desti, possono apparire a questi burocrati sonnacchiosi come una forma non sgradevole di collaborazione, che permette ad essi di adottare bell’e fatta una opinione altrui (quella dell’amico che raccomanda) senza dover faticare a fare una scelta propria (…). La peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato sarebbe quella di ammalarsi di quel terribile morbo dei burocrati che si chiama il conformismo. E’ una malattia mentale, simile all’agorafobia: il terrore della propria indipendenza; una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alle pressioni dei superiori, ma le immagina e le soddisfa in anticipo” (pp. 269 e 271).