PRINCIPALI QUESTIONI TRIBUTARIE
ANALISI DELLE
SENTENZE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
– SEZIONE TRIBUTARIA –
(aggiornata a novembre 2009)
AVV. MAURIZIO VILLANI
Avvocato Tributarista in Lecce
Patrocinante in Cassazione
INTRODUZIONE
Con la riforma del processo civile (Legge n. 69 del 18 giugno 2009, in G.U. n. 140 del 19 giugno 2009) è stato inserito l’art. 360-bis in tema di ricorso per Cassazione, il quale testualmente dispone:
“Il ricorso è inammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;
2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo”.
Il suddetto articolo è stato inserito nel codice di procedura civile con decorrenza dal 04 luglio 2009 (art. 47 Legge n. 69 cit.), con applicazione alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per Cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data del 04 luglio 2009.
Infatti, ai sensi e per gli effetti dell’art. 58, comma 1, Legge n. 69 cit., le disposizioni che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo il 04 luglio 2009.
Con il presente lavoro, si intende commentare l’art. 360-bis, n. 1, cit., soprattutto alla luce dei contrasti giurisprudenziali che più volte si sono avuti in materia tributaria presso la Suprema Corte di Cassazione.
PARTE PRIMA
RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE E
DEL PROCESSO TRIBUTARIO
RICORSO PER CASSAZIONE
PROBLEMATICHE ATTUALI
(ART. 360-BIS, N. 1, C.P.C.)
Dal 6 luglio 2009 (il 4 è sabato) sono entrate in vigore le nuove norme che regolano il rito del processo civile. Da pari data, dunque, anche la giustizia tributaria dovrà fare i conti con l’introduzione del c.d. “filtro” al ricorso in Cassazione.
Il nuovo art. 360-bis del codice di procedura civile, infatti, stabilisce una barriera all’impugnativa per Cassazione che vale anche per tutte le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionali. Una barriera che, però, risulta essere meno rigida rispetto a quella originariamente prevista dalla riforma. La vecchia formulazione del novello art. 360-bis, infatti, prevedeva un elenco di casi in cui il ricorso era da considerarsi ammissibile. La nuova versione, invece, più snella, individua esclusivamente i casi di inammissibilità del ricorso. Nel dettaglio, l’impugnativa per Cassazione è ritenuta inammissibile:
1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;
2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.
Il primo dei due casi di inammissibilità obbliga la parte che decide per l’impugnativa di valutare, preventivamente, l’orientamento tenuto dalla Cassazione su fattispecie analoghe a quella trattata nella sentenza contro cui si ricorre. All’evidenza di una giurisprudenza di inequivocabile segno opposto alle proprie ragioni, l’introduzione del ricorso per Cassazione è consentito solo se il difensore argomenti opportunamente le motivazioni per le quali ritiene che quella giurisprudenza meriti di essere abbandonata.
Tale prospettiva, in sintesi, concede da un lato un peso maggiore al precedente giurisprudenziale, tanto da equipararne gli effetti ad una sorta di paletto alla libera impugnativa; dall’altro, il nuovo articolo 360-bis darà un rinnovato impulso all’analisi di dottrina, alimentando un rinnovato dibattito sull’orientamento assunto dalla Corte di legittimità. L’esame di ammissibilità del ricorso è demandato ad una commissione di cinque magistrati appartenenti a tutte le sezioni. Il primo presidente trasmetterà il ricorso alla commissione che giudicherà in camera di consiglio. Se il ricorso è ammissibile viene restituito al Primo presidente che assegna ad una delle sezioni. Qualora il collegio deputato alla disamina reputi il ricorso inammissibile, il relatore della sezione deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia. Il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte. Almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza, il decreto e la relazione sono comunicati al pubblico ministero e notificati agli avvocati delle parti, i quali hanno facoltà di presentare, il primo conclusioni scritte, e i secondi memorie, non oltre cinque giorni prima e di chiedere di essere sentiti, se compaiono. Se, al termine di tale fase, il ricorso è confermato come inammissibile, la questione si chiude.
Viceversa, se il ricorso non è dichiarato inammissibile, il relatore nominato deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione dei motivi in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio o,di contro, rinvia la causa alla pubblica udienza.
La Sezione che gestirà il filtro dovrà, dunque, dare prova di equilibrio decisionale, coerenza e uniformità di orientamento selettivo.
Prova non certamente facile per giuristi abituati a ragionare sulle norme più che sulle sentenze, e particolarmente impegnativa nei primi anni di applicazione dell’istituto, in cui la stessa giurisprudenza per l’elaborazione del giudizio di “conformità” potrà risultare frammentata e difforme.
Oltretutto, come evidenziato e documentato nella parte seconda del presente lavoro, più volte la Corte di Cassazione, all’interno della stessa Sezione tributaria, ha deciso in modo contrastante varie questioni tributarie, che solo l’intervento delle Sezioni Unite ha risolto.
Ciò sta a significare che il c.d. consolidato giurisprudenziale di un certo periodo storico non è detto che permanga nel corso degli anni, potendo modificarsi per molteplici motivi quali:
– una diversa interpretazione normativa, per cui è necessario l’intervento delle Sezioni Unite;
– una modifica legislativa con interpretazione autentica;
– un intervento modificativo o interpretativo della Corte Costituzionale o della Corte di Giustizia UE;
– sotto certi aspetti, anche se non vincolante, persino una diversa interpretazione amministrativa correttiva di una precedente erronea interpretazione della stessa Amministrazione finanziaria (da ultimo, per esempio, sul concetto di inerenza, la circolare n. 39/E del 22 luglio 2009 dell’Agenzia delle Entrate ha clamorosamente sconfessato quanto pochi giorni prima era stato scritto con la circolare n. 36/E del 16 luglio 2009). A questo punto, prima di trarre alcune considerazioni, è importante conoscere alcuni significativi contrasti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, senza peraltro avere la pretesa di essere esaustivi, tenuto conto dell’enorme quantità delle problematiche fiscali tuttora in discussione.
PARTE SECONDA
CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI DELLA
CORTE DI CASSAZONE IN
MATERIA TRIBUTARIA
CASO N. 1
NOTIFICAZIONI
APPLICABILITA’ ART. 156 C.P.C.
Sull’applicabilità o meno, nel processo tributario, dell’art. 156, ultimo comma, c.p.c., “La nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”, nel corso degli anni si è assistito ad un vivace contrasto interpretativo all’interno della Corte di Cassazione, risolto dalle Sezioni Unite.
A) Una prima interpretazione ha affermato che l’avviso di accertamento non è un atto processuale, né è funzionale al processo, ma è semplicemente un atto amministrativo, esplicativo della potestà impositiva del fisco.
Da ciò deriva l’inapplicabilità dell’art. 156, ultimo comma, c.p.c., per cui la proposizione del ricorso da parte del contribuente avverso l’atto notificato non può mai produrre l’effetto di impedire, in ogni caso, la verificazione della decadenza di diritto sostanziale, correlato alla mancata tempestiva e valida notifica di detto avviso, previsto dall’art. 43, comma 1, DPR n. 600/1973 (in tal senso, Cassazione, Sezione trib., sentenza n. 5924 del 21 aprile 2001 e n. 3513 dell’11 marzo 2002).
B) Una seconda interpretazione, invece, ha affermato l’esatto contrario.
Infatti, sempre la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, uniformandosi alle precedenti pronunce della Sezione Prima n. 3294 del 07 aprile 1994 e n. 5100 del 09 giugno 1997, ed a quella della stessa Sezione tributaria n. 7284 del 29 maggio 2001, con la sentenza n. 17762 del 12 settembre 2002, ha affermato che la notificazione dell’avviso di accertamento affetta da nullità rimane sanata, con effetto ex tunc, dalla tempestiva proposizione del ricorso del contribuente, atteso che, da un lato, l’avviso di accertamento ha natura di provocatio ad opponendum, la cui notificazione è preordinata all’impugnazione e, dall’altro, l’art. 60, comma 1, DPR n. 600/1973 richiama espressamente gli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, così rendendo applicabile l’art. 160 del codice medesimo, il quale, attraverso il rinvio al precedente art. 156, prevede che la nullità non possa essere dichiarata quando l’atto ha raggiunto il suo scopo.
C) Nel risolvere il suddetto contrasto interpretativo, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 19854/04 del 03 giugno 2004, depositata il 05 ottobre 2004, ha accolto la seconda interpretazione (lett. B), precisando che: “In altri termini, per ritornare all’accertamento tributario, la nullità della sua notificazione può essere sanata relativamente al conseguimento della finalità dell’atto di portare a conoscenza del destinatario i termini della pretesa tributaria e consentirgli, così, un’adeguata difesa, ma non mai nel senso di attribuire ex tunc validità ad un intempestivo atto di esercizio del potere di accertamento, salvo che il conseguimento dello scopo avvenga entro il termine previsto dalle singole leggi d’imposta per l’esercizio di tale potere”.
Le norme processuali in genere, e quelle sul processo tributario in particolare, devono essere interpretate in modo da tutelare ad un tempo la funzione di garanzia che è istituzionalmente propria del processo e, nel contempo, in modo da limitare al massimo l’operatività di irragionevoli sanzioni di inammissibilità in danno delle parti che di quella garanzia dovrebbero giovarsi (Corte di Cassazione, sentenza n. 18088 del 28 maggio 2004, depositata l’08 settembre 2004).
D) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 21760 del 21 maggio 2009, depositata il 14 ottobre 2009 ha ribadito il principio secondo cui in materia di notifica degli accertamenti tributari si applicano le disposizioni del codice di procedura civile stante l’espresso rinvio a tali norme da parte dell’art. 60 DPR n. 600/73, ed in particolare, ove il destinatario dell’atto non sia reperito nel domicilio che risulta all’ufficio notificatore, né vi siano reperite persone idonee a ricevere la notifica, si deve provvedere a tutti gli adempimenti di cui all’art. 140 c.p.c. (deposito nella casa comunale e spedizione della raccomandata contenente l’avviso di deposito, con avviso di ricevimento), non essendo sufficiente il solo deposito nella casa comunale (vedi anche Corte di Cassazione sentenze nn. 3294/94, 10057/94 e 5100/1997).
CASO N. 2
CONTROVERSIE TRA SOSTITUTO
D’IMPOSTA E SOSTITUITO
La Corte di Cassazione, persino a Sezioni Unite, ha espresso contrastanti pronunce sulla competenza giurisdizionale per le controversie tra sostituto d’imposta e sostituito.
A) Competenza del giudice ordinario
La Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 15031 del 28 aprile 2009, depositata il 26 giugno 2009 (Presidente Carbone – Relatore Merone) ha stabilito che le controversie tra sostituto e sostituito, relative all’esercizio del diritto di rivalsa delle ritenute alla fonte versate direttamente dal sostituto, volontariamente o coattivamente, non sono attratte alla giurisdizione del giudice tributario ma rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.
In particolare, secondo i giudici di legittimità, “ciò che è oggetto di lite nel rapporto tra sostituto e sostituito è il legittimo e corretto esercizio del diritto di rivalsa, che il sostituto esercita nei confronti del sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo privatistico, quindi di competenza del giudice ordinario”.
Inoltre, “la questione relativa alla legittimità dell’atto impositivo può essere decisa incidenter tantum dinanzi al giudice ordinario, a meno che questo non ritenga di dover disporre la sospensione del processo ex art. 295 c.p.c.”, ferma in entrambi i casi, “la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie sostituto-sostituito”.
B) Competenza del giudice tributario
Invece, la stessa Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con l’ordinanza del 12 maggio 2009 n. 15047, depositata sempre il 26 giugno 2009 (stesso Presidente Carbone – diverso Relatore Vidiri) ha stabilito esattamente il contrario, cioè la competenza del giudice tributario.
Infatti, “la controversia tra sostituto d’imposta e sostituito, avente ad oggetto la pretesa del primo di rivalersi delle somme versate a titolo di ritenuta d’acconto non detratta dagli importi erogati al secondo, rientra nella giurisdizione delle Commissioni Tributarie e non del giudice ordinario, posto che l’indagine sulla legittimità della ritenuta non integra una mera questione pregiudiziale, suscettibile di essere delibata incidentalmente, ma comporta una controversia tributaria avente carattere pregiudiziale, la quale deve essere definita, con effetti di giudicato sostanziale, dal giudice cui la relativa cognizione spetta per materia, in litisconsorzio necessario con l’Amministrazione finanziaria”.
Tale indirizzo si era, peraltro, consolidato in giurisprudenza (così, Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 1200 del 05 febbraio 1988; n. 8787 del 17 novembre 1999; n. 8228 del 06 giugno 2002; n. 9074 del 06 giugno 2003 e n. 23019 del 15 novembre 2005), ribadendo, a giustificazione dell’assunto decisionale, che “il titolo della ritenuta ha carattere meramente fiscale e che la relativa controversia ha natura di vera e propria causa pregiudiziale, da risolvere e decidere con effetto di giudicato sostanziale nei confronti dei legittimi contraddittori, e perciò nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, dal giudice competente intuitu materiae a conoscerne”.
Si segnala che la suddetta sentenza pubblicata il 26 giugno 2009 risulta essere stata deliberata il 28 aprile 2009, cioè il giorno prima della sentenza n. 15031/2009 e che, nel caso, le conclusioni dello stesso Procuratore Generale all’udienza erano state, invece, nel senso del riconoscimento della giurisdizione al giudice ordinario.
C) Considerazioni
Si omette in questa sede ogni valutazione in merito, rimarcando ovviamente il netto contrasto tra le due deliberazioni sopra citate, depositate lo stesso giorno, dalla stessa Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con lo stesso Presidente ma con diverso relatore.
Posto che in base al nuovo art. 360-bis c.p.c. il ricorso per Cassazione “è inammissibile quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”, come dovrà regolarsi in proposito il difensore del contribuente, investito di un siffatto difficile ed iperbolico compito, a fronte di due pronunce delle Sezioni Unite come queste, specularmente opposte e persino pubblicate nello stesso giorno?
D) Ultimo intervento della Corte di Cassazione
Per sanare il contrasto interpretativo di cui sopra, finalmente, è intervenuta la sentenza n. 15031 del 28 aprile 2009, depositata il 26 giugno 2009, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito il principio che quando oggetto della lite nel rapporto tra sostituto e sostituito è il legittimo e corretto diritto di rivalsa, che il sostituto esercita nei confronti del sostituto nell’ambito di un rapporto privatistico, la competenza è del giudice ordinario e non delle Commissioni tributarie.
Infatti, con la suddetta, importante sentenza, i giudici di legittimità hanno stabilito che:
1) “soltanto le controversie che abbiano ad oggetto direttamente i rapporti tributari (caratterizzati, per definizione, dalla presenza di un soggetto dotato di potestà impositiva in senso lato e dall’esercizio di tale potere attraverso l’emissione di un atto di imposizione) rientrano nella competenza del giudice speciale, come si evince chiaramente dal sistema delle disposizioni legislative che definiscono i limiti della giurisdizione del giudice tributario”;
2) “quindi, non tutte le liti che abbiano ad oggetto l’interpretazione e/o l’applicazione di una norma tributaria possono essere portate al giudice tributario: è necessario che il contribuente, o comunque il destinatario di un obbligo tributario, chiami in causa uno dei soggetti elencati nell’art. 10 D.Lgs. n. 546/1992, cioè l’altro soggetto del rapporto tributario (ente impositore o concessionario) in relazione ad un atto che sia espressione dell’esercizio del potere impositivo, riferibile al modello di cui all’art. 19 D.Lgs. n. 546/1992”;
3) “nelle controversie tra sostituto e sostituito, dunque, manca l’atto impositivo, manca una domanda giudiziale rivolta nei confronti di un ente dotato di sovranità fiscale, manca, infine, la contestazione di un atto che sia espressione di tale potestas: mancano, in definitiva, i presupposti di accesso alla giurisdizione delle Commissioni tributarie”.
4) In definitiva, “quando la controversia in questione non ha ad oggetto un rapporto tributario tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, ma un rapporto di natura privatistica tra soggetti privati, che comporta un mero accertamento incidentale in ordine all’ammontare dell’imposta applicata in misura contestata” la competenza è sempre del giudice ordinario e mai delle Commissioni tributarie.
Si spera che il suddetto principio non subisca ulteriori ripensamenti, come, purtroppo, è avvenuto nel corso degli anni con il c.d. principio del “pantributarismo” (Cassazione, sentenza n. 23019 del 2005).
E) Ulteriori considerazioni
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9663 del 17 marzo 2009, depositata in Cancelleria il 23 aprile 2009, ha ulteriormente chiarito quanto segue:
“l’interpretazione dell’art. 37 cod. proc. civ., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (“asse portante della nuova lettura della norma”), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito” (Cass. 24883/2008; conf. 26019/08, 25770/08, 27344/08, 27531/08, 29523/08)”.
CASO N. 3
FONDAZIONI BANCARIE
Nel corso degli anni ci sono state decisioni contrastanti all’interno della Corte di Cassazione in merito alle pretese agevolative delle fondazioni bancarie.
A) A favore delle fondazioni bancarie la Corte di Cassazione si è pronunciata con le sentenze:
– n. 6607 del 09 maggio 2002;
– n. 19365 del 17 dicembre 2003;
– n. 19445 del 18 dicembre 2003;
– n. 129 del 09 gennaio 2004.
B) Invece, contro le tesi delle fondazioni bancarie la Cassazione si è pronunciata con la sentenza n. 14574 del 20 novembre 2001.
C) Per dirimere il suddetto contrasto interpretativo, finalmente, sono intervenute le Sezioni Unite, con le sentenze nn. 1588 e 1587 del 18 novembre 2008, depositate il 22 gennaio 2009, che hanno stabilito il seguente principio: “Il riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie dell’esenzione dalla ritenuta d’acconto sui dividendi da partecipazioni azionarie (prevista dall’art. 10-bis della legge n. 1745/1962) e della riduzione IRPEG (prevista dall’art. 6 del DPR N. 601/1973) è subordinato all’effettivo perseguimento in via esclusiva da parte dell’ente dei scopi di beneficienza, educazione, studio e ricerca, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni in imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche.
La prova di tale requisito è posta a carico del soggetto che invoca l’agevolazione, e può essere fornita mediante la produzione di estratti dei libri contabili o idonee certificazioni del collegio dei revisori o del collegio sindacale delle società partecipate; la relativa verifica postula un’indagine sull’esercizio in concreto dell’attività d’impresa, non limitata ai modi di gestione della partecipazione di origine, ma estesa all’attività complessivamente esercitata dalla fondazione nell’anno d’imposta e presuppone anzitutto che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo, non incombendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di sollevare in proposito precise contestazioni”.
CASO N. 4
IMPUTABILITA’ AI SOCI DEGLI
UTILI EXTRACONTABILI
Sull’imputabilità ai soci degli utili extracontabili la Cassazione si divide.
E’ stato, infatti, rilevato sia che dall’esistenza di utili occulti non possa automaticamente desumersi la riscossione degli stessi ad opera dei soci, dovendo invece essere l’ufficio a provarne la percezione effettiva, sia che, pur non sussistendo una presunzione legale di distribuzione degli utili ai soci, come avviene per le società personali, non può considerarsi illogica la distribuzione degli utili extracontabili, tenuto conto della “complicità” che avvince un gruppo ristretto di soci.
A) Presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci.
La Corte di Cassazione, in un primo momento, con indirizzo consolidato, ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, in caso di accertamento di utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria e la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati accantonati e reinvestiti (Cassazione, sentenze nn. 16885/03; 9629/07 e 6197/07).
Ciò in considerazione della complicità che normalmente caratterizza una siffatta compagine societaria (Cassazione, sentenze n. 8351/02; 8462/00; 14391/01).
Tale orientamento è stato ribadito con altre recenti decisioni in cui è stato statuito che l’attribuibilità ai soci degli utili extrabilancio di società di capitali a ristretta base azionaria discende dal dato oggettivo costituito dallo scarso numero dei soci che si converte nel dato qualitativo della maggiore conoscibilità degli affari societari e nell’onere per il socio di conoscere tali affari; il socio, però, può fornire la prova dei fatti impeditivi della suddetta attribuibilità.
La presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati non viola il divieto di presunzione di secondo grado in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci (Cassazione, Sez. tributaria, sentenza n. 25939 del 30 settembre 2008, depositata il 29 ottobre 2008; Cass. n. 1906/08; conf. Cass. n. 3896/08).
B) ONERE DELLA PROVA A CARICO DELL’UFFICIO
Ultimamente, però, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14046/09, depositata il 17 giugno 2009, sembra tornare sui suoi passi, rilevando che per imputare un maggior reddito ad un socio di una cooperativa a responsabilità limitata, in conseguenza di presunti ricavi non contabilizzati, occorre illustrare specificamente gli elementi che fanno ritenere fondato l’accertamento.
A tal fine, pertanto, non sono sufficienti affermazioni “apodittiche” quali “il buon senso” e la “logica” per ritenere provata l’equivalenza secondo cui al presunto maggior reddito in capo alla società corrisponde un maggior reddito (per quota parte) in capo ai soci.
Quest’ultimo orientamento è più condivisibile in punto di diritto, perché non appare corretto attribuire automaticamente maggiori redditi ad un socio senza alcun specifico elemento probatorio che faccia ritenere fondate tale circostanza.
C) Infine, collegata con la suddetta problematica, sussistono ancora le seguenti questioni:
1) circa il periodo d’imposta cui imputare gli utili extrabilancio; la Corte di Cassazione (sentenza n. 25688/06) non ha ritenuto applicabile l’art. 2433, comma 1, c.c., sicchè la distribuzione deve ritenersi avvenuta nello stesso periodo d’imposta in cui gli utili sono stati conseguiti;
2) circa l’irrilevanza della perdita; secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 18640/08) è irrilevante che la società sia o meno in perdita in quanto le somme occulte resesi disponibili non sono transitate dalla contabilità della società, per cui non hanno potuto avere altra destinazione se non quella della disponibilità dei soci, a meno che non sia fornita prova contraria. Logicamente, anche i suddetti principi dovranno essere rivisitati alla luce del nuovo indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione (lett. B).
CASO N. 5
ICI – COOPERATIVE AGRICOLE –
BENI STRUMENTALI
MODIFICHE LEGISLATIVE
A) In materia tributaria non è raro l’intervento legislativo che modifica l’assetto normativo di un istituto giuridico o con interpretazioni autentiche o con modifiche normative con effetti retroattivi, in spregio alle disposizioni ed allo spirito dello Statuto dei diritti del contribuente.
Di conseguenza, questi interventi legislativi influiscono sulla giurisprudenza dei giudici di merito e di legittimità, anche se su quell’argomento si era formata una consolidata interpretazione.
Un esempio di ciò si è avuto in tema di ICI per i beni strumentali delle cooperative agricole, come può schematicamente notarsi dal seguente sviluppo normativo.
1) Fino al 1993; il presupposto dell’ICI, per quanto qui interessa, si realizza con il possesso di fabbricati, intendendosi per tali le unità immobiliari iscritte o che devono essere iscritte nel catasto edilizio urbano (artt. 1 e 2 del D.Lgs. n. 504/1992).
Di conseguenza, in base all’allora vigente normativa (artt. 38 e 39 del DPR n. 1142/1949), i fabbricati rurali, per essere qualificati tali ai fini catastali, dovevano appartenere allo stesso proprietario del terreno (Cassazione, sentenza n. 1330/2005).
2) Dal 1994 al 1998; l’art. 9 del D.L. n. 557 del 30 dicembre 1993 ha previsto il censimento di tutti i fabbricati rurali ed ha inoltre stabilito la necessità di una coincidenza soggettiva fra il possessore del fabbricato ed il proprietario del terreno. Di conseguenza, i fabbricati delle cooperative prive di fondi non potevano essere considerati rurali (Cass. n. 18853/2005 e n. 16701/2007).
3) Dal 1999 al 2007; successivamente, con il DPR n. 139/1998, nell’art. 9 del D.L. n. 557/1993 è stato inserito il comma 3-bis che ha riconosciuto il carattere della ruralità fiscale anche “alle costruzioni strumentali alle attività agricole di cui all’art. 29 del TUIR”.
4) Dal 2008; in un siffatto quadro normativo, che continuava a generare una diffusa conflittualità, è nuovamente intervenuto il legislatore che, con l’art. 42-bis del D.L. 1° ottobre 2007 n. 159, ha previsto che il carattere della ruralità, ai fini fiscali, deve essere riconosciuto anche alle costruzioni strumentali delle cooperative agricole e loro consorzi.
B) La Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 932 del 26 giugno 2008, depositata in segreteria il 16 gennaio 2009, ha inoltre, stabilito che l’omessa indicazione, nella dichiarazione (come nella denunzia) di cui all’art. 10, comma 4, del D.Lgs. n. 504/1992, anche di un solo cespite immobiliare soggetto ad autonoma imposizione ICI costituisce omessa dichiarazione (o denunzia) dello stesso cespite ed è punibile ai sensi dell’art. 14, comma 1, dello stesso decreto a titolo di “omessa presentazione della dichiarazione o denuncia”, non già ai sensi del comma 2 della stessa norma quale “dichiarazione o denuncia infedeli”.
C) Nel corso degli anni si è assistito ad un contrastante orientamento della Corte di Cassazione in materia assoggettamento ad ICI dei fabbricati rurali, anche alla luce delle succitate modifiche legislative, tanto è vero che si è reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 18565/09 del 07 luglio 2009, depositata in segreteria il 21 agosto 2009, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’immobile che sia stato iscritto nel catasto fabbricati come “rurale”, con l’attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dall’art. 9, D.L. n. 557 del 1993, conv. con L. n. 133 del 1994, e successive modificazioni, non è soggetto all’imposta ai sensi del combinato disposto dell’art. 23, comma 1-bis, D.L. n. 207 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, e dell’art. 2, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 504 del 1992.
L’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata specificamente dal contribuente che pretenda la non soggezione all’imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest’ultimo assoggettato ad ICI: allo stesso modo il Comune dovrà impugnare l’attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10 al fine di potere legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta.
Per i fabbricati non iscritti in catasto l’assoggettamento all’imposta è condizionato all’accertamento positivamente concluso della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della ruralità del fabbricato previsti dall’art. 9, D.L. n. 557 del 1993 e successive modificazioni che può essere condotto dal giudice tributario investito dalla domanda di rimborso proposta dal contribuente, sul quale grava l’onere di dare la prova dei predetti requisiti.
Tra i predetti requisiti, per gli immobili strumentali, non rileva l’identità tra titolare del fabbricato e titolare del fondo, potendo la ruralità essere riconosciuta anche agli immobili delle cooperative che svolgono attività di manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli conferiti dai soci”.
D) La questione, relativa all’assoggettabilità ad ICI dei fabbricati rurali, trae origine da un contrasto giurisprudenziale, sorto in seno alla Suprema Corte, a fronte di soluzioni differenziate, ma accomunate dall’inesistenza di una specifica norma in materia di ICI che esentasse direttamente i fabbricati rurali ed individuasse con chiarezza e precisione le caratteristiche di ruralità degli stessi.
Sull’argomento, poi, di recente, per colmare detta lacuna e porre fine al copioso contenzioso, il legislatore, con l’art. 23, comma 1-bis, D.L. n. 207 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, è intervenuto sull’art. 2 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, che definisce l’ambito oggettivo di applicazione dell’ICI (fabbricati, aree edificabili e terreni agricoli), disponendo che i fabbricati rurali, anche se iscritti o iscrivibili in catasto, non si considerano «fabbricati».
Pertanto, tutti i fabbricati in possesso dei requisiti di ruralità (ivi compresi quelli di proprietà delle cooperative agricole di valorizzazione, trasformazione, manipolazione e commercializzazione dei prodotti conferiti dai soci) di cui all’art. 9 del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, si considerano oggettivamente fuori dal campo di applicazione dell’imposta comunale.
Tale intervento legislativo, che prescrive l’esenzione dall’ICI per tutti i fabbricati rurali, è stato qualificato sia dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, con la sentenza in commento, che dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 227 del 14 luglio 2009, come una disposizione di interpretazione autentica e, quindi, applicabile retroattivamente (Cass. SS. UU. n. 9941 del 2009), dato il richiamo contenuto nella norma all’art. 1, comma 2, L. n. 212 del 2000.
Nello specifico, le SS. UU. hanno statuito che, ai fini dell’accertamento della ruralità, rileva l’accatastamento, in quanto la ruralità dei beni immobili strumentali all’attività agricola deriva dall’essere essi oggettivamente adibiti all’attività rurale, indipendentemente dall’identità tra titolare del fabbricato e titolare del fondo, potendo la ruralità essere riconosciuta anche agli immobili delle cooperative che svolgono attività di manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli conferiti dai soci.
In questo modo, dunque, è stato superato il più recente orientamento giurisprudenziale della stessa Corte, che, invece, aveva affermato l’assoggettamento ad ICI della generalità dei fabbricati rurali a fronte della mancanza di un’esplicita esenzione normativa e del fatto che la “ruralità” producesse effetti solo ai fini dell’accatastamento e dell’eventuale attribuzione della rendita, presupposti questi contestabili ma necessari e sufficienti ai fini dell’assoggettamento dell’imponibile all’imposta stessa.
Conseguentemente, quindi, alla luce della nuova disposizione d’interpretazione autentica ad efficacia retroattiva, tale orientamento, secondo le SS. UU., può dirsi superato in favore dell’esenzione ICI per tutti i fabbricati accatastati come rurali.
Per cui, se il contribuente ha ricevuto un accatastamento non coerente con la qualifica di ruralità, per ottenere l’esenzione dall’imposta comunale dovrà contestare gli atti del Territorio. Viceversa, sarà il Comune a dover impugnare l’attribuzione della categoria catastale, laddove, invece, lo stesso ritenga di poter legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta. Mentre, per i fabbricati non iscritti in catasto, l’assoggettamento all’imposta sarà condizionato all’accertamento dei requisiti di ruralità positivamente concluso dal giudice tributario investito della domanda di rimborso proposta dal contribuente.
Se, poi, il provvedimento di attribuzione è divenuto vincolante ed il contribuente, per qualsiasi ragione, non ha mai versato alcuna somma a titolo di ICI, non si pongono problemi di sorta, in quanto la valenza retroattiva della nuova disposizione toglie all’Amministrazione finanziaria qualsiasi titolo per avanzare pretese impositive. Invece, se il contribuente ha provveduto ad effettuare versamenti e si è nei termini (48 mesi dal versamento), basterà la presentazione di una formale richiesta di rimborso per porre fine alla questione. Il rimborso, oltretutto, a fronte della rilevata illegittimità costituzionale dell’art. 2, c. 4, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008), per irragionevolezza ed incompatibilità con il principio di uguaglianza, nella parte in cui vietava il rimborso ICI ai periodi d’imposta precedenti al 2008 (Corte Cost., sent. n. 227 cit.), è riconosciuto anche per i periodi d’imposta precedenti a tale data, in quanto <<la retroattività propria di un’interpretazione autentica non tollera eccezioni al significato attribuito alla legge interpretata>>.
In questo modo, quindi, l’esenzione ICI sui fabbricati rurali, oltre ad essere normativamente prevista, risulta, altresì, garantita laddove ricorrano i requisiti di ruralità.
E) Infine, si precisa che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 227 del 14 luglio 2009, depositata il 22 luglio 2009, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 4, della Legge 244/2007 (Finanziaria 2008) che dichiarava non rimborsabile l’ICI per gli anni precedenti al 2008 alle cooperative agricole che, sebbene non fossero tenute al pagamento dell’imposta sui propri fabbricati, vi abbiano comunque provveduto.
Detta norma, infatti, risulta incompatibile con il principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 della Costituzione), in quanto fonte di ingiustificata disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente uguali, venendo a determinare un trattamento deteriore di chi abbia erroneamente pagato un’imposta non dovuta rispetto a quello di chi, versando nella medesima situazione, non abbia invece effettuato alcun pagamento.
CASO N. 6
SCOMPUTO DELLE RITENUTE FISCALI IN ASSENZA
DELLA CERTIFICAZIONE DEL SOSTITUTO D’IMPOSTA
Un particolare problema, che ha creato un forte contrasto giurisprudenziale all’interno della Corte di Cassazione, peraltro ultimamente risolto dalla stessa Agenzia delle Entrate, è quello relativo allo scomputo delle ritenute fiscali in assenza della certificazione del sostituto d’imposta.
A) Inizialmente, la Corte di Cassazione (sentenze n. 8606 del 02 ottobre 1996; n. 12991 del 23 novembre 1999; n. 3725 del 03 luglio 1979) aveva stabilito, in maniera costante, che “il mancato rilascio della dichiarazione attestante l’avvenuta ritenuta da parte di colui che ha effettuato la ritenuta medesima non può comportare per il contribuente (che ha subìto la ritenuta) l’obbligo di pagare nuovamente l’imposta”, questo per il logico principio del divieto della doppia imposizione.
B) Nonostante la posizione maggioritaria sopra esposta, l’orientamento della Suprema Corte, però, è mutato a partire dall’anno 2000 (Cassazione, Sez. Trib., sentenze n. 5020 del 02 aprile 2003 e n. 10613 dell’11 agosto 2000) sino a giungere nel 2006 alla pronuncia della Cassazione in cui si legge: “il fatto che l’art. 64, primo comma, del DPR 29 settembre 1973 n. 600, definisca il sostituto d’imposta come colui che “in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri….ed anche a titolo di acconto” non toglie che anche il sostituito debba ritenersi fin dall’origine (e non già solo in fase di riscossione) obbligato solidale al pagamento dell’imposta: in tale qualità, anch’egli è pertanto soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri, fermo restando il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo aver eseguito la ritenuta, non l’abbia versata all’Erario, in tal modo esponendolo all’azione del fisco” (Cassazione, sentenza n. 14033/2006).
In sostanza, i giudici di legittimità, con la succitata sentenza, da un lato, non hanno preso in considerazione la possibilità di dimostrare l’avvenuta applicazione della ritenuta a mezzo di altre prove documentali e, dall’altro lato, hanno giudicato prive di fondamento la pretesa esenzione del sostituito d’imposta dall’obbligo di corrispondere una seconda volta l’imposta che, a parere del contribuente, doveva discendere dal divieto della doppia imposizione.
C) INTERPRETAZIONE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE.
Nel contrasto giurisprudenziale di cui sopra, ultimamente, è intervenuta l’Agenzia delle Entrate che, con la risoluzione n. 68/E del 19 marzo 2009, ha fornito delle importanti precisazioni, da un lato, fugando ogni dubbio circa la legittimità dello scomputo delle ritenute subite dal contribuente anche in assenza della prescritta certificazione e, dall’altro lato, affermando la possibilità per il contribuente stesso di avvalersi di mezzi di prova alternativi (quali, per esempio, l’atto notorio, avente valore equipollente a quello della certificazione rilasciata dal sostituto d’imposta).
In tale contesto, per assurdo, è l’Agenzia delle Entrate a tutelare meglio il contribuente, evitandogli la doppia imposizione.
CASO N. 7
DECADENZA DELL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA
Un particolare problema processuale riguarda l’eccezione in tema di decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio del proprio potere di accertamento nei confronti del contribuente.
A) Oggi, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, è pacifico che, in materia tributaria, la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio di un potere nei confronti del contribuente, in quanto stabilita in favore e nell’interesse esclusivo di quest’ultimo in materia di diritti da esso disponibili, configura eccezione in senso proprio che, in sede giudiziale, deve essere dedotta soltanto dal contribuente, non potendo essere rilevata d’ufficio dal giudice tributario. Da ciò discende che l’abbandono, in appello, dell’originaria prospettazione dell’eccezione di decadenza dell’uffico dal potere impositivo comporta l’effetto preclusivo di cui all’art. 56 D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 (in tal senso, Corte di Cassazione, Sez. Trib., sentenza n. 478 dell’11 gennaio 2008).
Inoltre, nello stesso senso:
– Cassazione, Sez. Trib. sentenza n. 13321 del 07 giugno 2006;
– Cassazione. Sez. Trib. sentenza n. 8454 del 22 aprile 2005.
B) La suddetta interpretazione non è condivisibile secondo me, perché quanto precisato dalla Corte di Cassazione può essere vero per la propria prescrizione, in quanto essa è stabilita in favore e nell’interesse esclusivo del contribuente, ma non certo per quanto riguarda la decadenza (art. 2964 c.c.).
Infatti, la decadenza assolve più efficacemente della prescrizione alla funzione di assicurare certezza e stabilità ai rapporti giuridici, atteso il maggior rigore cui è informata la sua disciplina, che prevede termini più brevi, non ne ammette la interruzione e, soltanto in via eccezionale, ne ammette la sospensione.
Per stabilire, infatti, in concreto se un termine stabilito dalla legge sia di prescrizione o di decadenza occorre non tanto fare riferimento alla espressa definizione contenuta nella legge, quanto alla sua concreta finalità: nella prescrizione, quella di ritenere, in via presuntiva, abbandonato il diritto per l’inerzia protrattasi per un certo termine (termine di durata) del suo titolare, e nella decadenza, quella corrispondente alla necessità obiettiva di compimento di determinati atti entro un dato termine (termine fisso perentorio), come precisato dalla Corte di Cassazione, Sezione Civile, con la sentenza n. 2690 del 21 agosto 1972).
Di conseguenza, proprio per le considerazioni giuridiche sopra esposte, fatte in sede civile dalla stessa Corte di Cassazione, l’argomento meriterebbe un maggiore approfondimento ed una congrua motivazione.
CASO N. 8
SOTTRAZIONE FRAUDOLENTA AL PAGAMENTO DI IMPOSTE
A) L’art. 11 D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000 testualmente dispone:
“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore a lire 100 milioni, aliena simulatamente o compie altri fatti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”.
Che la norma non sia in effetti chiarissima è dimostrato anche dal contrastante orientamento maturato in senso alla Corte di Cassazione, che, nella sentenza penale n. 9251/2005, affermò la perdurante necessità, ai fini della configurabilità del suddetto reato, dell’esistenza di una procedura in atto di riscossione coattiva quale presupposto per l’applicazione sull’art. 11 cit..
Il suddetto orientamento, però, in seguito è stato abbandonato dalla stessa Cassazione che, nella successiva sentenza n. 17071/2006, ha stabilito che, al fine del perfezionamento del reato, è richiesto soltanto che l’atto simulato di alienazione, o gli altri atti fraudolenti sui beni, siano idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del fisco, sul rilievo, appunto, che la disposizione oggi vigente non contiene alcun riferimento alle condizioni prima previste dall’art. 97, comma 6, DPR n. 602/1973.
Questa linea interpretativa è stata successivamente confermata dalla sentenza n. 7916 del 26 febbraio 2007 della Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, nonché dalla sentenza n. 25147 del 17 giugno 2009, Terza Sezione Penale.
Dunque, sino ad oggi, può concludersi nel senso che la recentissima sentenza n. 25147/2009 ha consolidato la linea interpretativa rigida, che è peraltro sicuramente più aderente al tenore letterale della norma, nonché in linea con la volontà del legislatore delegato.
B) La Corte di Cassazione, Sezione III Penale, con la sentenza n. 36838 del 22 settembre 2009 ha stabilito che è soggetto a sequestro l’immobile donato alla moglie da un imprenditore che non ha pagato i debiti fiscali, se lo scopo è sottrarre il bene all’azione esecutiva.
Infatti, anche la moglie risponde del reato di sottrazione fraudolenta dei beni al pagamento delle imposte.
CASO N. 9
QUERELA DI FALSO PER CONTESTARE I VERBALI
– SOSPENSIONE DEL PROCESSO –
A) Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione solo ultimamente hanno risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di procedure da adottare per contestare efficacemente i verbali dei pubblici ufficiali (come, per esempio, quelli redatti dalla Guardia di Finanza o dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate – Direzioni Provinciali).
Infatti, con la sentenza pronunciata il 24 luglio 2009 n. 17355, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha precisato che per contestare la fede privilegiata di un verbale non basta una generica opposizione ma occorre una querela di falso.
Infatti, attraverso una querela di falso si possono smontare percezioni sia statiche che dinamiche; senza la querela di falso, le affermazioni contenute nei verbali prevarranno sulle dichiarazioni degli interessati e di eventuali testimoni.
Invece, non è necessaria la querela di falso per dimostrare circostanze non percepite dal pubblico ufficiale, quali, per esempio, le valutazioni o le considerazioni giuridiche.
Se esistono elementi seri di prova che possono contrapporsi ai dati fattuali, precisi e dettagliati, contenuti nel processo verbale, il cittadino-contribuente potrà agire con querela di falso, da chiedere tempestivamente al giudice competente e da dimostrare con elementi concreti; diversamente, prevarrà quanto percepito dal pubblico ufficiale.
B) La Corte di Cassazione, Sezione tributaria, ha più volte affermato che: “l’art. 39 D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, che limita i casi di sospensione del giudizio tributario all’eventualità sia presentata querela di falso o debba essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone, va interpretato nel senso che esso disciplina i rapporti esterni con la giurisdizione civile, ma non anche i rapporti interni tra processi tributari, per i quali valgono le disposizioni del c.p.c., tra cui l’art. 295 c.p.c..
Deve, di conseguenza, essere cassata la pronuncia resa dalla Commissione regionale che non abbia sospeso il processo, pronunziando nel merito sulla impugnativa dell’avviso di liquidazione dell’INVIM decennale relativo ad un fabbricato in ordine al quale l’UTE aveva notificato l’attribuzione della rendita autonomamente impugnata in altro giudizio non ancora definito” (Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 13082/06 del 13 aprile 2006, depositata l’01 giugno 2006; Cass. sentenza n. 10509 del 18 luglio 2002; n. 24408 del 18 novembre 2005 e n. 17937 del 06 settembre 2004).
CASO N. 10
ACCANTONAMENTI PER INDENNITA’ SUPPLETIVA DI CLIENTELA
Gli accertamenti annuali per indennità suppletiva di clientela in relazione ai rapporti di agenzia sono, oggi, deducibili ai fini delle imposte sui redditi.
E’ questo l’importante principio contenuto nella recente sentenza n. 13506 dell’11 giugno 2009 della Corte di Cassazione, che segna una decisa inversione interpretativa rispetto a numerosi e persino recenti precedenti tutti conformi nel senso, invece, della indeducibilità, da parte dell’imprenditore-preponente, di tale accantonamento annuale.
A) Tesi dell’indeducibilità
In un primo momento, il problema della deducibilità fiscale dell’accantonamento per indennità suppletiva di clientela (artt. 105, comma 4, e 17, comma 1, TUIR, in precedenza artt. 70, comma 3, e 16, comma 1, del previgente articolato) fu risolto nel senso della indeducibilità (Cassazione, Sez. Trib., sentenza n. 7690/2003 e 24973/2006), al massimo entro determinati limiti (Cassazione, sentenza n. 9179 del 2003).
A questa giurisprudenza, si aggiunge, recentemente, Cass. n. 17602/2008 che, pur aderendo all’ipotesi negativa (indeducibilità), non manca di rilevare in motivazione, al fine di valutare la debenza delle sanzioni per le obiettive condizioni di incertezza, che la stessa Amministrazione finanziaria, con la risoluzione n. 59/E del 09 aprile 2004, aveva sostenuto che il fondo ISC era fiscalmente deducibile, ricalcando, peraltro, quanto già previsto nella risoluzione n. 8/731 del 21 luglio 1976.
B) Tesi della deducibilità
Ultimamente, invece, la Corte di Cassazione, Sez. Quinta civile, con la sentenza n. 13506 del 04 maggio 2009, depositata l’11 giugno 2009, ritiene deducibile la suddetta indennità, posto che l’art. 1751 codice civile, con le modifiche apportate dall’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 65 del 15 febbraio 1999 contiene ormai l’intera disciplina dell’indennità di fine rapporto dell’agente di commercio.
Infatti, a seguito della suddetta modifica legislativa, è caduta la distinzione fra “indennità di scioglimento del contratto”, obbligatoria perché di origine codicistica, e “indennità suppletiva di clientela”, sorgente da contrattazione collettiva e fruibile solo a determinate condizioni (fra le tante, Cassazione, sentenze n. 2126/2001 e 4586/1991).
Di conseguenza, l’espressione “indennità per la cessazione di rapporti di agenzia, contenuta nell’art. 16, comma 1, lett. d), TUIR, ha portata estesa, senza ulteriori distinzioni, alla materia regolata dalla citata norma del codice.
Quindi, l’interprete non può escludere, anche se la norma sia di stretta e rigorosa interpretazione, ciò che il legislatore non ha inteso esplicitamente escludere.
C) Considerazioni
Nella suddetta problematica, il contrasto giurisprudenziale è stato sanato con l’intervento innovativo del legislatore, nonostante la stessa Agenzia delle Entrate, fin dal primo momento, fosse favorevole alla tesi della deducibilità con le risoluzioni n. 8/731 del 1976 e n. 59/E del 2004, già citate.
CASO N. 11
RITRATTABILE QUANTO DICHIARATO ANCHE CON IL TERMINE SCADUTO IN TEMA DI IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI.
Negli anni scorsi, ci fu un forte contrasto tra le Sezioni semplici della Corte di Cassazione specificamente sulla questione dell’emendabilità della dichiarazione di successione che, finalmente, fu risolto dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 15063 del 25 ottobre 2002, n. 17394 del 06 dicembre 2002 e n. 14088 del 27 luglio 2004, peraltro ultimamente richiamate con la sentenza n. 16873 del 31 marzo 2009, depositata il 21 luglio 2009, della Sezione tributaria.
In sostanza, sono stati ribaditi i seguenti principi:
a) L’emendabilità, in via generale, di qualsiasi errore, di fatto o di diritto, anche se non direttamente rilevabili dalla stessa dichiarazione, si fonda sulla imponibilità di assoggettare il dichiarante ad oneri diversi e più gravosi di quelli che, per legge, devono restare a suo carico, in conformità con i principi costituzionali della capacità contributiva (art. 53 Cost.) e della oggettiva correttezza dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.);
b) la emendabilità e la ritrattabilità della dichiarazione di successione sono sottratte al termine fissato per la dichiarazione medesima, perché attengono alle modalità di adempimento di un obbligo e non all’esercizio di un potere, con la conseguenza che il mancato rispetto del termine non inciderà certo sull’efficacia della dichiarazione, potendo solo comportare l’applicazione delle sanzioni corrispondenti (Cassazione, sentenza n. 10494/2003);
c) la dichiarazione di successione è emendabile finchè non intervenga un avviso di accertamento di maggior valore, ma con effetti diversi a secondo che:
– la modifica abbia luogo prima della notificazione dell’avviso di liquidazione della maggiore imposta; in tal caso, l’ufficio è tenuto a rispettare le risultanze della correzione, fermo restando l’esercizio dei suoi poteri in ordine ai valori emendati, ma con onere della prova a suo carico;
– la modifica abbia luogo dopo la notificazione dell’avviso di liquidazione della maggiore imposta; in questo caso, invece, pur non potendo considerarsi precluso l’esercizio della facoltà di correzione, quest’ultima, venendo necessariamente ad operare in sede contenziosa, pone a carico esclusivo del contribuente tutti gli oneri di dimostrazione sulla correttezza della rettifica proposta.
CASO N. 12
CONTABILITA’ IN NERO
Con riferimento al tema sulla c.d. “contabilità in nero” c’è da rilevare che la giurisprudenza di legittimità ha prodotto fiumi di interpretazioni, peraltro non sempre univoche nel tempo.
In sostanza, almeno sino ad oggi, si possono affermare i seguenti principi:
1) la c.d. contabilità in nero (agende, block notes, appunti personali ed informali dell’imprenditore, floppy disk), costituisce valido elemento indiziario dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge, che il giudice tributario non può acriticamente disattendere (Cassazione, sentenza n. 1987/06 e n. 17365 dell’08 maggio 2009, depositata il 24 luglio 2009);
2) la suddetta contabilità in nero costituisce elemento probatorio, sia pure presuntivo, che può utilmente essere valutato in sede di accertamento, a prescindere dal contestuale riscontro di irregolarità nella tenuta della contabilità o degli inadempimenti di obblighi di legge (Cassazione, sentenza n. 2217/06);
3) gli appunti rinvenuti in sede di verifica sono ricondotti nel novero dei documenti riepilogativi e costitutivi della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa (Cassazione, sentenza n. 25104/08);
4) da ultimo, è onere dell’ufficio depositare in Commissione tributaria l’intera documentazione in nero per consentire al contribuente una legittima difesa ed al giudice un sereno ed imparziale giudizio; in difetto, i giudici tributari non devono assolutamente sopperire alle mancanze istruttorie dell’ufficio, perché l’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 deve essere interpretato ed applicato alla luce dell’art. 111 della Costituzione (così come modificato dalla Legge costituzionale n. 2 del 1999) secondo cui il giudice deve essere “terzo” e, dunque, non può collocarsi a fianco di una parte (in ipotesi negligente) per sopperire alle carenze probatorie della stessa (Cassazione, sentenze n. 13201 del 16 aprile 2009, depositata il 09 giugno 2009, e n. 24464 del 17 novembre 2006).
5) Su questo articolato scenario giurisprudenziale, ultimamente, si inserisce la sentenza n. 15536 del 02 luglio 2009 della Corte di Cassazione – Sez. trib. -, che si segnala per la rilevanza del principio di diritto affermato. In sostanza, i giudizi di legittimità non modificano la linea interpretativa sopra esposta, ritenendo dunque sufficiente l’esistenza di un semplice brogliaccio per rettificare il reddito d’impresa dichiarato; tuttavia, laddove il giudice di merito abbia minato la validità probatoria del documento, sostenendo, in linea alla tesi difensiva, che il documento stesso ha contenuto incerto e di dubbia interpretazione, non è dato al giudice di legittimità indicare tale affermazione, purchè lo stesso sia adeguatamente motivato, in modo da consentire di comprendere l’iter argomentativo che sta alla base delle affermazioni della sentenza.
6) In definitiva, schematicamente, si possono sintetizzare i seguenti principi:
– è sempre necessaria l’allegazione della documentazione extracontabile da parte dell’Amministrazione finanziaria (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 13201 del 09 luglio 2009);
– non è sufficiente l’esistenza di un semplice brogliaccio per giustificare un accertamento induttivo (in presenza di una contabilità formalmente regolare) fintantoché da quel brogliaccio non sia presumibile dedurre l’esistenza di una doppia contabilità (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 1536 del 02 luglio 2009);
– i documenti extracontabili, rinvenuti presso terzi, non sono idonei a fondare un avviso di accertamento o di rettifica se l’Agenzia delle Entrate non ha fatto un “controllo incrociato”, fra contribuente ufficiale e non ufficiale (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 14014 del 17 giugno 2009).
7) C’è da segnalare la sentenza n. 23585 del 06 novembre 2009 con la quale la Corte di Cassazione – Sezione tributaria – ha precisato che i contenuti di brogliacci, agende, block-notes e simili, relativi all’esistenza di una contabilità parallela, possono costituire indizi connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza.
Di conseguenza, è legittimo l’accertamento induttivo a carico del contribuente sul quale grava l’onere di fornire la prova contraria, nel caso in cui voglia impugnare le risultanze di cui all’atto impositivo notificatogli.
CASO N. 13
INFORMAZIONI ANONIME
Il giudice tributario, in sede di impugnazione dell’atto impositivo basato su libri, registri, documenti ed altre prove reperite mediante accesso domiciliare autorizzato dal Procuratore della Repubblica (artt. 52/663 e 33/600) ha il potere-dovere (in ossequio al canone ermeneutico secondo cui va privilegiata l’interpretazione conforme ai precetti costituzionali, nella specie artt. 14 e 113 della Costituzione), oltre che di verificare la presenza, nel decreto autorizzativo, di motivazione, sia pure concisa o per la relationem mediante recepimento dei rilievi dell’organo richiedente, circa il concorso di gravi indizi del verificarsi dell’illecito fiscale, anche di controllare la correttezza in diritto del relativo apprezzamento, nel senso che faccia riferimento ad elementi cui l’ordinamento giuridico attribuisca valenza indiziaria.
Pertanto, nell’esercizio di tale importante e necessario compito, il giudice tributario deve negare la legittimità dell’autorizzazione emessa esclusivamente sulla scorta di informazioni anonime valutando conseguenzialmente il fondamento della pretesa fiscale senza tenere conto di quelle prove (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 6836 del 19 febbraio 2009, depositata il 20 marzo 2009).
A tal proposito, va considerato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 16424/2002), componendo un precedente contrasto giurisprudenziale, avevano già avuto modo di stabilire il suddetto principio.
CASO N. 14
INDAGINI BANCARIE
In tema di indagini bancarie, ai fini degli accertamenti IRPEF ed IVA (artt. 32/600 e 51/633), la giurisprudenza della Corte di Cassazione, sino ad oggi, ha stabilito i seguenti principi.
1) Le indagini bancarie sono presunzioni legali, ancorchè semplici, in forza delle quali i versamenti su conto corrente bancario, in assenza di prova contraria del contribuente che attesti la loro inerenza all’imponibile dichiarato ovvero ad operazioni non imponibili, si presumono rappresentativi di corrispettivi imponibili in forza di una vincolante valutazione legislativa (Cassazione, sentenze nn. 28324/05, 26692/05, 18421/05, 18851/03, 6232/03, 8422/02, 3929/02, 10662/01, 9946/00 e 18868/07).
2) L’utilizzazione da parte dell’Amministrazione finanziaria dei movimenti dei conti correnti bancari in disponibilità del contribuente, a fine di accertamento tanto delle imposte dirette quanto dell’IVA, è pienamente legittima ed in tale ambito sono consentite indagini bancarie estese ai congiunti del contribuente persona fisica, posto che il rapporto familiare è sufficiente a giustificare, salva prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato dalle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari degli indicati soggetti (Cassazione, sentenze nn. 6743/07, 13391/03, 8683/02 e 1728/99).
3) Le indagini bancarie, che possono riguardare anche conti e depositi intestati a terzi, inclusi i familiari, non sono da qualificare come (inammissibile) presunzione di doppio grado, poiché è l’art. 51, comma 2, DPR n. 633 cit. a prevedere che i singoli dati ed elementi risultanti dall’indagine bancaria devono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cassazione, sentenze nn. 27032/07, 374/09 e 15544 del 06 maggio 2009, depositata il 02 luglio 2009).
4) Inoltre, la legittimità della ricostruzione della base imponibile mediante l’utilizzo delle movimentazioni bancarie acquisite non è subordinata al preventivo contraddittorio con il contribuente (Cassazione, sentenze nn. 18421/05, 27032/07 e 15172/09).
5) Sempre in tema di indagini bancarie, la Corte di Cassazione, Sezione Quinta civile, con la sentenza n. 16874/09 del 02 aprile 2009, depositata il 21 luglio 2009, ha confermato i seguenti principi:
a) “il principio (costituente corollario) già affermato da questa sezione (sentenza 15 giugno 2007 n. 14023), per il quale la norma detta “subordinata la legittimità delle indagini bancarie e delle relative risultanze all’esistenza dell’autorizzazione e non anche alla relativa esibizione all’interessato”, nonché
b) “la precisazione (contenuta nella stessa decisione) per la quale “eventuali illegittimità nell’ambito del procedimento amministrativo di accertamento diventano censurabili davanti al giudice tributario soltanto quando, traducendosi in un concreto pregiudizio per il contribuente, vengono ad inficiare il risultato finale del procedimento e, quindi, l’accertamento medesimo (cfr Cass. 18836/06)”.
Di conseguenza, la mancanza materiale dell’autorizzazione produce l’illegittimità del risultato finale del procedimento soltanto quando si traduce in un concreto (ovverosia certo ed effettivo) pregiudizio per il contribuente.
6) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 18339/09 del 04 giugno 2009, depositata il 17 agosto 2009, ha precisato quanto segue:
“Poiché, in definitiva, la sentenza de qua ha fatto errato governo del principio secondo cui “L’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973,nel caso di acquisizione di conti correnti bancari; impone di considerare ricavi sia le operazioni attive, sia quelle passive. Il legislatore considera, fino a prova contraria, ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti, in quanto non ritiene che il contribuente evasore occulti in pari misura i ricavi ed i costi; anzi, la norma muove dal presupposto che il contribuente tenda ad occultare i ricavi, ma non i costi. Secondo l’art. 32 del D.P.R. n. 600 del 1973, spetta al contribuente provare che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili, qualora intenda vincere la presunzione di ricavi dei versamenti e dei prelevamenti” (Cassazione civile, sez. trib., 9 settembre 2005, n. 18016) nonché di quello a mente del quale “In tema di controlli bancari, in favore dell’Amministrazione Finanziaria opera una presunzione legale che la dispensa dal fornire qualunque prova sulla sua pretesa nel caso in cui la stessa disponga dei dati sui movimenti di denaro relativi ai conti correnti del contribuente. La norma contenuta nell’art. 32, comma 1 n. 2 del d.P.R. n. 600/73 istituisce chiaramente una presunzione legale in favore dell’Amministrazione, anche se non la nomina esplicitamente; ne deriva un inversione dell’onere della prova, che così grava sul contribuente. Tocca a quest’ultimo, quindi, giustificare di fronte all’Amministrazione i prelevamenti effettuati dai conti correnti e dimostrare l’avvenuta contabilizzazione dei versamenti o l’irrilevanza di questi ultimi ai fini della determinazione del reddito” (Cassazione civile, sez. trib., 12 maggio 2008, n. 11750). Il motivo deve essere accolto.
Per quanto. attiene al ricorso incidentale si deve rilevare l’inammissibilità di tutti i motivi in quanto delle questioni che con gli stessi vengono proposti (mancanza di prova in ordine alla riferibilità alla società dei conti correnti intestati ai soci, difetto di autorizzazioni agli accertamenti bancari e comunque mancata allegazione e motivazione delle stesse) non è traccia nella decisione impugnata, da cui l’ineludibile alternativa: o le censure sono nuove e quindi sono inammissibili; oppure le stesse sono state proposte in ricorso e reiterate in appello e la Commissione non si è pronunciata e allora la sentenza doveva essere censurata per violazione dell’art. 112 c.p.c., previa enunciazione delle modalità con cui il giudice di primo grado, e poi quello d’appello, sarebbero stati investiti.
L’accoglimento del ricorso principale comporta la cassazione della decisione impugnata e il rinvio della causa, anche per le spese, ad altra sezione della stessa Commissione tributaria regionale per un nuovo esame alla luce dei principi enunciati”.
7) Infine, la Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 21454 del 09 luglio 2009, depositata il 09 ottobre 2009, ha precisato che in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore. In forza di tali disposizioni deve ritenersi che l’acquisizione dagli istituti di credito di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente e l’utilizzazione dei dati da questi risultanti ai fini delle rettifiche e degli accertamenti non possono ritenersi limitate, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati alla società, ma riguardano anche quelli intestati ai soci e agli amministratori. In tal caso, occorre comunque che risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, ad onta della formale intestazione al terzo.
Si tratta di una presunzione legale di carattere relativo, essendo ammessa la prova liberatoria da parte del contribuente, a cui resta garantito il diritto di difesa, potendo egli far valere le sue ragioni in sede contenziosa, depositando documenti e memorie fino alla data di trattazione del ricorso in primo grado.
8) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con l’importante sentenza n. 21454 del 09 luglio 2009, depositata il 09 ottobre 2009, ha stabilito il seguente principio:
“…….questa Corte ha già avuto modo di statuire che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, gli uffici finanziari, previa autorizzazione della direzione regionale delle entrate, possono acquisire, a norma D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, n. 7, copia dei conti correnti bancari intrattenuti con il contribuente, con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti, comprese le garanzie prestate da terzi, nonche’ ulteriori dati, notizie e documenti di carattere specifico relativi a tali conti (Cass. 17 giugno 2002, n. 8683).
Inoltre il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 73, comma 3, stabilisce che in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne e’ l’effettivo possessore. In forza di tali disposizioni deve ritenersi che l’acquisizione dagli istituti di credito di copia dei conti bancari intrattenuti con il contribuente e l’utilizzazione dei dati da questi risultanti ai fini delle rettifiche e degli accertamenti non possono ritenersi limitate, in caso di societa’ di capitali, ai conti formalmente intestati alla societa’, ma riguardano anche quelli intestati ai soci e agli amministratori. (In senso conforme, ai fini degli accertamenti e delle rettifiche in tema di IVA, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, nn. 2 e 7, (v. Cass. 1 marzo 2002, n. 2980)”. In tal caso, occorre comunque che risulti provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilita’ all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati (Cass. n. 13391/03), ad onta della formale intestazione al terzo, (Cass. n. 4423/03).
Come ha recentemente statuito questa Corte, si tratta di una presunzione legale di carattere relativo, essendo ammessa la prova liberatoria da parte del contribuente, a cui resta garantito il diritto di difesa, potendo egli far valere le sue ragioni in sede contenziosa a norma del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32, depositando documenti e memorie fino alla data di trattazione del ricorso in primo grado (v. Cass. n. 18421 del 2005). Ne’ la legittimita’ della ricostruzione della base imponibile mediante l’utilizzo delle movimentazioni bancarie acquisite e’ subordinata al contraddittorio con il contribuente, anticipato alla fase amministrativa, in quanto l’invito rivolto a quest’ultimo a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari, costituisce, infatti, una mera facolta’, da esercitarsi in piena discrezionalita’, e non un obbligo, con la conseguenza che dal mancato esercizio di tale facolta’ non deriva alcuna illegittimita’ della rettifica operata in base ai relativi accertamenti, ne’ scade a presunzione semplice la presunzione legale posta, che consente di riferire i movimenti bancari all’attivita’ svolta dal contribuente, gravando su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria (vedi Cass. n. 11572/09, che ha a sua volta richiamato Cass. n. 18421 del 2005 e n 27032 del 2007)”.
CASO N. 15
LITISCONSORZIO NECESSARIO
A) Sulla particolare problematica processuale del litisconsorzio necessario (art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992), dopo vari contrasti all’interno della Corte di Cassazione, oggi, le Sezioni Unite, hanno stabilito i seguenti principi.
1) “Ogni volta che, per effetto della norma tributaria o per l’azione esercitata dall’amministrazione finanziaria, l’atto impositivo debba essere o sia unitario, coinvolgendo nella unicità della fattispecie costitutiva dell’obbligazione una pluralità di soggetti, ed il ricorso pur proposto da uno o più obbligati, abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario nel processo tributario, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del D.Lgs. 546/1992” (tra le altre, sentenze 1052 e 1053/2007).
2) “Tra le ipotesi di possibile litisconsorzio necessario, ricostruito o definito dalla citata giurisprudenza, possono rientrare le cause originate dall’impugnazione avverso gli avvisi di accertamento di maggior reddito a carico di società di persone e dell’attribuzione del medesimo reddito, secondo le relative quote, ai singolo soci, in base alla presunzione legale posta, prima, dall’art. 5 del DPR n. 597/1973 e, poi, dall’art. 5 del DPR n. 917/1986” (Cassazione, sentenze sopra citate).
3) Infine, proprio perché nei rapporti tra società e soci ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario, l’eventuale violazione del suddetto istituto comporta la nullità ab imis del rapporto processuale, che assorbe ogni possibile questione relativa alla successiva applicazione di altre norme che disciplinano i rapporti tra procedimenti connessi (sospensione ex art. 295 c.p.c.), salvo quella sulla riunione dei ricorsi ex art. 29 D.Lgs. n. 546/1992.
“In altri termini, se tutti gli interessati, litisconsorti necessari (società e soci), impugnano gli avvisi di accertamento loro notificati, i relativi ricorsi, se pendenti dinanzi allo stesso giudice, vanno riuniti ai sensi del citato art. 29 D.Lgs. n. 546/1992, oppure, come si dirà, dinanzi al giudice preventivamente adito.
Altrimenti, soccorre l’obbligo della integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 14 D.Lgs. n. 546/1992 (in tal senso, ultimamente, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14815 del 19 febbraio 2008, depositata il 04 giugno 2008).
In tal modo, è stato finalmente composto il contrasto giurisprudenziale all’interno dei giudici di legittimità, soprattutto a seguito delle interpretazioni esposte nelle sentenze n. 14417/2005 e n. 9446/2006, oggi definitivamente sconfessate con la succitata sentenza n. 14815/08.
Infine, ultimamente, i suddetti principi sono stati confermati dalla Corte di Cassazione, Sezione trib., con la sentenza n. 17732 del 30 luglio 2009 e con la sentenza n. 15164 del 30 marzo 2009, depositata il 26 giugno 2009.
B) La sentenza 26 giugno 2009 n. 15180 della Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – si palesa particolarmente interessante sotto vari aspetti. Per iniziare, ciò che immediatamente colpisce è la vicenda da cui la controversia trae origine, determinata da alcuni contribuenti che, avendo proposto istanza di rimborso per Irpef sia alla Direzione regionale delle entrate della Lombardia che a quella del Veneto, ne hanno, poi, impugnato i rispettivi silenzi-rifiuto dinanzi alle Commissioni tributarie competenti per territorio. La duplice proposizione delle suddette istanze scaturiva dal fatto che, sebbene il domicilio fiscale dei contribuenti fosse in Veneto, tuttavia i pagamenti in eccedenza erano stati effettuati in Lombardia. In virtù di tale circostanza, il giudizio instaurato avverso il silenzio-rifiuto della Dre Lombardia si era concluso in Cassazione (sentenza 19605/05) con la declaratoria d’inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, a causa della mancata formazione di un valido atto impugnabile, discendente dal fatto che la Dre Lombardia, alla quale era stata presentata l’istanza di rimborso, essendo diversa da quella (Direzione regionale delle entrate del Veneto) nella cui circoscrizione il contribuente aveva il suo domicilio fiscale, non era competente a pronunciarsi sulla stessa, per cui non si era formato nessun valido atto (anche di silenzio-rifiuto) impugnabile ai sensi del richiamato articolo 19 del Dlgs 546/1992; mentre, il giudizio instaurato avverso il silenzio-rifiuto della Dre Veneto, si è concluso con la sentenza n. 15180.
Eccezione di litispendenza. Orbene, ciò che a questo punto colpisce della sentenza sono i limiti che la Corte pone alla proponibilità dell’eccezione di litispendenza, di cui all’articolo 39, comma 1, del Cpc, sollevata, in sede di ricorso per Cassazione, dall’amministrazione finanziaria, in relazione ai ricorsi depositati prima, presso la Commissione lombarda. Il primo limite alla proponibilità dell’eccezione di litispendenza è costituito dal giudicato, formatosi relativamente ai ricorsi depositati prima (Cassazione, sentenza 19605/05), il secondo, invece, da un precedente giurisprudenziale (Cassazione, sentenza 22900/07), secondo il quale la litispendenza, pur essendo denunciabile in qualunque stato e grado del processo, non può essere eccepita per la prima volta in cassazione, senza che sia stata, nei precedenti gradi del giudizio, almeno allegata la pendenza dell’altro processo. Questo perché, come già chiarito dalla Suprema Corte, con altra sentenza (Cassazione, sentenza 6943/04), «il potere d’ufficio del giudice attiene solo al riconoscimento degli effetti giuridici di fatti che siano stati pur sempre allegati dalla parte. Sicché il potere di allegazione rimane riservato esclusivamente alla parte anche rispetto ai fatti costitutivi di eccezioni rilevabili d’ufficio, perché il giudice può surrogare la parte nella postulazione degli effetti giuridici dei fatti allegati, ma non può surrogarla nell’onere di allegazione, che, risolvendosi nella formulazione delle ipotesi di ricostruzione dei fatti funzionali alle pretese da far valere in giudizio, non può non essere riservato in via esclusiva a chi di quel diritto assuma di essere titolare». Naturalmente, poi, a ciò si aggiunga che tale situazione deve persistere nel giudizio di Cassazione sino all’udienza di discussione (Cassazione 1218/06), con conseguente onere di allegazione della relativa documentazione che attesti l’attualità delle condizioni di applicabilità dell’articolo 39 del Cpc, documentazione quest’ultima non soggetta alla preclusione di cui all’articolo 372 del Cpc (Cassazione n. 3340/01).
Recente orientamento. Ancor più interessante, infine, si palesa la sentenza in commento, allorquando la Corte, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale più recente (Cassazione 4773/2009), ribalta la conclusione del giudizio instaurato avverso il silenzio-rifiuto della Dre Lombardia (Cassazione 19605/05), statuendo che, in tema di rimborso dell’imposta sui redditi di cui all’articolo 38 del Dpr 602/1973, la presentazione di un’istanza di rimborso a un organo diverso da quello territorialmente competente a provvedere costituisce atto idoneo non solo a impedire la decadenza del contribuente dal diritto al rimborso, ma anche a determinare la formazione del silenzio-rifiuto impugnabile avanti al giudice tributario. In questo modo, infatti, il contribuente non solo non decadrà dall’esercizio del diritto al rimborso, nel caso di presentazione dell’istanza a un ufficio incompetente, ma potrà comunque impugnare il silenzio-rifiuto formatosi, sia perché l’ufficio non competente (purché non estraneo alla amministrazione finanziaria) è tenuto a trasmettere l’istanza all’ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione fra organi della stessa amministrazione, sia alla luce dell’esigenza di una sollecita definizione dei diritti delle parti ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione. Tutto ciò, dunque, in favore di una maggior tutela riconosciuta al contribuente.
C) Infine, la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la sentenza n. 17194 del 29 aprile 2009, depositata il 23 luglio 2009, ha stabilito il principio che nel processo tributario gli interventori possono essere solo i codestinatari dell’atto ovvero i coobbligati del medesimo rapporto tributario, risultando inammissibile in radice un intervento adesivo ad adiuvandum proposto da una ONLUS.
Tale inammissibilità è tanto più evidente ove si consideri che, nel caso di specie, l’organizzazione non risulta iscritta nell’Anagrafe ONLUS.
Tale iscrizione è, infatti, necessaria per legittimare l’intervento delle ONLUS nella rappresentative action per la tutela degli interessi diffusi dinanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria.
D) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 11466 del 23 aprile 2009, depositata il 18 maggio 2009, ha stabilito che alle società tra professionisti si applicano le regole previste per le società di persona e, in particolare, l’automatica imputazione dei redditi per trasparenza; di conseguenza, il giudizio avente ad oggetto l’accertamento del reddito singolare o, se incardinato per primo, quello relativo al maggior reddito societario deve vedere come litisconsorti necessari sia la società che i professionisti soci.
CASO N. 16
OBIETTIVE CONDIZIONI DI INCERTEZZA
A) In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie e sul potere delle Commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni stesse in caso di obiettive condizioni incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce (art. 8 D.Lgs. n. 546892; art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 472/97; art. 10, comma 3, D.Lgs. n. 212/2000), in un primo momento, la Corte di Cassazione aveva ritenuto che tale potere doveva ritenersi sussistente “quando la disciplina normativa si articoli in una pluralità di prescrizioni il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione” (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 22890 del 25 ottobre 2006).
In ogni caso, l’onere di allegare la ricorrenza di siffatti elementi di confusione, se esistenti, grava sempre nel contribuente, sicchè va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente, né, per conseguenza, che sia ammissibile una censura avente ad oggetto la mancata pronuncia d’ufficio sul punto.
A tal proposito, però, si fa presente che in altra occasione la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4053/2000, si era pronunciata a favore della tesi della sua applicabilità ex officio.
Infatti, con la succitata sentenza n. 4053/2000, la Corte di Cassazione aveva stabilito che le Commissioni tributarie hanno “il potere di escludere, anche d’ufficio, e senza sollecitazione dell’interessato, l’applicabilità delle sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.
B) Successivamente, però, la Corte di Cassazione cambia indirizzo interpretativo non solo per quanto riguarda la procedibilità ex officio ma, soprattutto, per quanto riguarda i soggetti cui riferire il grado di incertezza, che non devono essere più i contribuenti o gli uffici fiscali ma soltanto i giudici tributari, unici deputati ad interpretare ed applicare le leggi fiscali.
Infatti, la Corte di Cassazione, sez. trib., con le sentenze n. 24670 del 28 novembre 2007 e n. 14987 del 28 maggio 2009, depositata il 25 giugno 2009, osserva che “in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento di interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all’ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione.
Tale verifica è censurabile in sede di legittimità per violazione di legge, non implicando un giudizio di fatto, riservato all’esclusiva competenza del giudice di merito, ma una questione di diritto, nei limiti in cui la stessa risulti proposta in riferimento a fatti già accertati e categorizzati nel giudizio di merito”.
C) Il recente orientamento della Corte di Cassazione appare criticabile, se non nelle premesse, sicuramente sul piano dei corollari (o almeno di una parte di essi) che trae da quelle stesse promesse.
Oltretutto, l’esimente inserita nelle disposizioni dello Statuto del contribuente fa chiaramente propendere per la tesi dell’allargamento (e non della restrizione) del ventaglio dei soggetti legittimati alla disapplicazione.
In ogni caso, su tutti i suesposti argomenti, è auspicabile un intervento delle Sezioni Unite per sanare i contrasti interpretativi tuttora esistenti.
D) Da ultimo, si osserva che tra le obiettive condizioni di incertezza, senza dubbio, è da annoverare la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, che spesso si verificano nel settore tributario (Cassazione, Sez. trib., sentenze n. 18039 del 24 agosto 2007; n. 11051 del 14 maggio 2007; n. 11052 del 14 maggio 2007; n. 4044 del 21 febbraio 2007; n. 27473 del 22 dicembre 2006; nn. 27257 e 27258 del 20 dicembre 2006; n. 25618 dell’01 dicembre 2006; nn. 15551 e 15552 del 07 luglio 2006; n. 14670 del 23 giugno 2006; n. 13079 dell’01 giugno 2006; n. 2478 del 06 febbraio 2006), accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei giudici di merito, di un intervento chiarificatore da parte della Corte di Costituzionale (Cassazione, Sezione trib., sentenze n. 533 del 12 gennaio 2007; n. 27216 del 20 dicembre 2006 e n. 3510 del 17 febbraio 2006).
CASO N. 17
ELEMENTI PENALI ACQUISITI IRRITUALMENTE
UTILIZZABILI IN SEDE FISCALE
A) Ultimamente, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 13361 del 14 maggio 2009, depositata il 10 giugno 2009, richiamando la sentenza n. 8990 del 2007, ha stabilito che: “In tema di accertamenti tributari, nelle indagini svolte, ai sensi degli artt. 33 del DPR 29 settembre 1973 n. 600, e 52 e 63 del DPR 26 ottobre 1972 n. 633, la Guardia di finanza, che cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni verifiche, ricerche ed acquisizione di notizie, ha l’obbligo di uniformarsi alle dette disposizioni, sia quanto alle necessarie autorizzazioni che alla verbalizzazione.
Tali indagini hanno carattere amministrativo, con conseguente inapplicabilità dell’art. 24 Cost. in materia di inviolabilità del diritto di difesa, essendo applicabili, nella successiva ed eventuale procedura contenziosa, le garanzie proprie di questa, e vanno pertanto considerate distintamente dalle indagini, che la stessa Guardia di finanza conduce in veste di polizia giudiziaria, dirette all’accertamento dei reati, con l’osservanza di tutte le prescrizioni dettate dal codice di procedura penale a tutela dei diritti inviolabili dell’indagato.
La mancata osservanza di tali prescrizioni, rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide, purchè non siano violate le dette disposizioni degli artt. 33 del DPR n. 600 del 1973, e 52 e 63 del DPR n. 633 del 1972, sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene ai fini meramente fiscali, senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 Cost.”.
B) A tal proposito, inoltre, giova rimarcare che vale anche il “reciproco” dell’orientamento riaffermato nelle succitate sentenze.
Infatti, la Corte di Cassazione, Sezione Penale, con la sentenza n. 12017/07, ha precisato che le verifiche fiscali, anche quando necessitano di autorizzazione del magistrato, come nel caso degli accessi domiciliari, conservano la natura di indagini amministrative finalizzate alla formazione di un successivo atto impositivo, sicchè le irregolarità verificatesi nel corso di tale procedimento amministrativo, se sono in grado di incidere sulla validità dell’accertamento tributario nei confronti dell’oggetto sottoposto alla verifica fiscale, non rendono, però, inutilizzabile la notizia criminis che dovesse essere emersa nel corso della verifica stessa, in specie ai fini della configurabilità dei reati tributari.
C) La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21974 dell’11 giugno 2009, depositata il 16 ottobre 2009, ha ulteriormente stabilito che l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare, prevista, in presenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie, costituisce un provvedimento amministrativo che s’inserisce nella fase preliminare del procedimento di formazione dell’atto impositivo ed ha lo scopo di verificare che gli elementi offerti dall’Ufficio tributario o dalla Guardia di Finanza siano consistenti ed idonei ad integrare i gravi indizi.
Da tale natura e funzione dell’autorizzazione discende che il Giudice tributario può essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del Pubblico Ministero e la presenza in esso degli indispensabili requisiti, tenendo conto, in merito alle motivazioni, che l’apprezzamento della gravità degli indizi è esternabile anche in modo sintetico, oppure indiretto, tramite il riferimento ai dati allegati dall’autorità richiedente.
Infine, con la suddetta sentenza, la Corte di Cassazione ha precisato che, anche in assenza di una espressa previsione di legge, l’acquisizione irrituale di elementi di prova rilevanti ai fini dell’accertamento comporta l’inutilizzabilità degli stessi.
D) Ultimamente, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 24507 del 20 novembre 2009, ha riconosciuto alla Polizia Tributaria una competenza che si esprime lungo tutto l’arco delle leggi di natura finanziaria.
Inoltre, anche qualora siano rinvenibili nel verbale delle valutazioni esorbitanti la competenza dei verificatori, in contrasto con le sentenze citate nelle precedenti lettere, la Corte di Cassazione ha precisato che l’eventuale illegittimità costituisce un semplice vizio esclusivo del verbale, che non può in ogni caso trasmettersi automaticamente all’avviso di accertamento.
E) A questo punto, per sanare l’attuale contrasto interpretativo sull’argomento, è auspicabile un intervento risolutivo delle Sezioni Unite.
CASO N. 18
AUTOTUTELA
In tema di autotutela, ed in particolare per quanto riguarda il rigetto, espresso o tacito, della stessa, la Corte di Cassazione, nel confermare sempre la competenza del giudice tributario (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 16776 del 10 agosto 2005, più volte richiamata), in un primo momento, ha avuto un atteggiamento di netta chiusura (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 2870 del 06 febbraio 2009 e n. 3698 del 16 febbraio 2009).
Ultimamente, però, la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con l’importante sentenza n. 9669 del 23 aprile 2009, ha riportato il dibattito su binari senz’altro più consoni, sulla scia, peraltro, di pronunce giurisprudenziali maggiormente sensibili alle esigenze di tutela del contribuente (si citano, Cassazione, Sez. trib., sentenze n. 7388 del 27 marzo 2007 e n. 21530 del 15 ottobre 2007).
Al tempo stesso, però, la Corte, con la succitata sentenza n. 9669/2009, ha confermato il principio che, nel giudizio di opposizione in tema di autotutela, non si può “dare inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo” (su tale concetto, peraltro, insistono anche le sentenze n. 3698/2009 e n. 2870/2009).
Deve essere sempre chiaro, infatti, che l’atto impugnato (e quindi, l’oggetto del processo è costituito soltanto dal diniego di autotutela e non, perlomeno direttamente, dal provvedimento impositivo (inopponibile) a monte.
Quindi, il difensore del contribuente deve stare attento a contestare soltanto gli eventuale profili di illegittimità del rigetto (espresso o tacito) dell’autotutela, spiegando al giudice i motivi per i quali, invece, l’ufficio avrebbe dovuto procedere all’annullamento dell’atto impositivo non impugnato.
CASO N. 19
DECORRENZA TERMINE BREVE PER L’IMPUGNAZIONE
A) L’art. 325, comma 2, c.p.c., testualmente dispone che “Il termine per proporre il ricorso per Cassazione è di giorni sessanta” (articolo, peraltro, richiamato dagli artt. 51 e 62, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992).
A tal proposito, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha stabilito che: “la notifica della sentenza di secondo grado, ai fini della decorrenza del termine breve di sessanta giorni, previsto dall’art. 51, comma primo, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 per la proposizione del ricorso per Cassazione avverso le sentenze delle Commissioni tributarie regionali, deve essere effettuata presso l’Agenzia. La notifica presso l’Avvocatura dello Stato territorialmente competente può, invece, aver luogo soltanto nel caso in cui la stessa abbia assistito l’ufficio dell’Agenzia nel predetto grado di giudizio, non trovando applicazione l’art. 21 della legge 13 maggio 1999 n. 133, il quale risulta abrogato per incompatibilità con l’art. 72 del D.Lgs. 30 luglio 1999 n. 300 che, richiamando l’art. 43 del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611, prevede come meramente facoltativo, per le agenzia fiscali il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato” (in tal senso, Corte di Cassazione, sentenze n. 7882 del 30 marzo 2007, preceduta dalle sentenze n. 15563 del 07 luglio 2006, n. 3118 del 14 febbraio 2006, n. 12075 del 01 luglio 2004; ultimamente, inoltre, sentenza n. 13338 del 20 marzo 2009, depositata il 10 giugno 2009).
B) Sempre in tema di notifiche, la Corte di Cassazione, Sezione trib., con la sentenza n. 24924 del 10 ottobre 2008, ha precisato che: “A seguito delle decisioni della Corte Costituzionale n. 477 del 26 novembre 200, nn. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005, in particolare dell’affermarsi del principio della scissione fra il momento perfezionativo della notificazione per il notificante e per il destinatario, infatti (Cass. Sez. 1, sentenza n. 15958 del 18 luglio 2007, tra le recenti) “la notificazione, almeno quando questa debba compiersi entro un determinato termine, si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, con la conseguenza che, ove tempestiva, quella consegna evita alla parte la decadenza correlata all’inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata (Cass., Sezioni Unite, 04 maggio 2006 n. 10216; Cass. 26 luglio 2005 n. 15616; 26 luglio 2004 n. 13970), non potendo ricadere sul richiedente la notifica le conseguenze di un errore che non sia al medesimo imputabile, ovvero che si verifichi quando il buon esito della notificazione dipenda dallo stesso destinatario (Cass. 19 ottobre 2006 n. 22840; 23 marzo 2005 n. 6316; 19 gennaio 2005 n. 1025; 13 aprile 2004 n. 7018) e dovendo le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario della notifica contemperarsi con il diverso interesse del primo a non subire le conseguenze negative derivanti dall’intempestivo esito del procedimento notificatorio, per la parte di quest’ultimo sottratta alla sua disponibilità (Cass. 2 febbraio 2007 n. 2261)”.
CASO N. 20
IRAP
AUTONOMA ORGANIZZAZIONE – CONTRIBUTI –
A) In tema di IRAP, in particolare per quanto riguarda il concetto di autonoma organizzazione, la Corte di Cassazione, dopo alcuni contrasti interpretativi, oggi è giunta a stabilire che il suddetto requisito ricorre quando il contribuente che eserciti attività di lavoro autonomo:
a. sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;
b. impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che secondo l’id quod prelumque accidit costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. In tal senso, ultimamente, Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 14693 dell’11 marzo 2009, depositata il 23 giugno 2009; sentenza n. 3678 del 2007.
In ogni caso, l’accertamento per stabilire se sussiste o meno un’autonoma organizzazione spetta soltanto al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cassazione, Sez. Trib., sentenza n. 16855 del 20 luglio 2009).
B) Ultimamente, però, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 17533 del 28 luglio 2009, ha precisato che “incombe al contribuente, che chieda il rimborso del tributo, la prova dell’assenza dell’autonoma organizzazione e la ricorrenza di tale requisito non può essere esclusa allorchè l’attività del professionista presenti un contesto organizzativo esterno anche minimo, derivante dall’impiego di capitali e di lavoro altrui, che potenzi l’attività intellettuale del singolo”.
Nella fattispecie decisa dai giudici di legittimità è stato negato il rimborso IRAP ad un medico che era in possesso di beni strumentali di sole Lire 5.510.000 (€ 2.846).
Dunque, se fino ad oggi i professionisti dotati di un pc e di una scrivania erano abbastanza tranquilli di essere esenti dal tributo IRAP, con la suddetta sentenza vacilla il concetto dei beni indispensabili oltre i quali si può parlare di autonoma organizzazione.
Quant’è il minimo concesso? Duemila euro? Tremila o diecimila euro? Di quanti collaboratori è concesso avvalersi?
Il nodo della questione resta una costante: una norma che faccia chiarezza e non lasci nel dubbio i professionisti, come purtroppo avviene oggi.
C) Inoltre, si rammenta che, con il comunicato stampa del 02 settembre 2009 dell’Agenzia delle Entrate, è stato precisato che “E’ in corso di predisposizione il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate che dispone il rinvio dalla data di attivazione della procedura per la presentazione delle istanze di rimborso previste dall’articolo 6 del decreto legge n. 185 del 2008, attualmente fissata al 14 settembre 2009”.
Il suddetto termine è stato prorogato e con il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate del 28 ottobre 2009 è stato fissato un calendario regionale delle istanze IRAP 10%.
D) La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 21719 del 03 luglio 2009, depositata il 13 ottobre 2009, ha stabilito quanto segue:
“con riferimento alla definizione automatica prevista dall’art. 9 della Legge 27 dicembre 2002, n. 289, la presentazione della relativa istanza preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità d’imposta definite in via agevolata, ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto (nella specie, IRAP): il condono, infatti, in quanto volto a definire “transattivamente” la controversia in ordine all’esistenza di tale presupposto, pone il contribuente di fronte ad una libera scelta tra trattamenti distinti e che non si intersecano tra loro, ovverosia coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo se del caso il rimborso delle imposte indebitamente pagate, oppure corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, ma senza possibilità di riflessi o interferenze con quanto eventualmente già corrisposto in via ordinaria” (Cass. n. 3682, n. 6504, n. 25239 del 2007).
E) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 21749 del 29 settembre 2009, depositata il 14 ottobre 2009, ha stabilito che:
“Con l’art. 5, comma 3, della Finanziaria 2003 il legislatore ha provveduto per la prima volta ad interpretare autenticamente l’art. 11, comma 3, del D.Lgs. n. 446/1997, enucleando un significato della norma interpretata costituente l’unico contenuto possibile, secondo cui alla determinazione della base imponibile IRAP concorrono in ogni caso i contributi erogati a norma di legge.
L’art. 5, comma 3, della Finanziaria 2003 è, in altre parole, di contenuto più ampio, ma non contrastante con l’originario art. 3, comma 2-quinquies, del D.L. n. 209/2002, introdotto dalla legge di conversione n. 265/2002, ed ha esteso retroattivamente in via di interpretazione autentica una lettura della norma imposta precedentemente dal D.L. n. 209/2002 solo per il futuro, e cioè a decorrere dal 1° gennaio 2003.
Deve quindi ritenersi infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, della Finanziaria 2003 e legittima l’inclusione nella base imponibile IRAP dei contributi corrisposti per l’esercizio e per gli investimenti dei servizi di trasporto pubblico locale, anche per gli anni di imposta anteriori al 2003”.
CASO N. 21
AGEVOLAZIONI PRIMA CASA
USUCAPIONE
A) La Corte di Cassazione, Sezione trib., con la sentenza n. 10802/07, del 03 aprile 2007, depositata l’11 maggio 2007, ha precisato che “non è condivisibile l’assunto dell’Amministrazione secondo il quale solo con l’art. 16 del D.L. n. 155/93, convertito in Legge n. 243/93, si è esteso il regime agevolativo alle sentenze accertative di usucapione. Non vi è, infatti, in tale norma alcuna disposizione atta a suffragare tale tesi la quale, tra l’altro, non è sostenuta da alcuna argomentazione, esaurendosi in una mera affermazione.
Piuttosto, mette conto sottolineare che l’art. 23 del D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, nella Legge 27 aprile 1989, n. 154, inserendo la nota II bis all’art. 8 della prima parte della tariffa allegata al DPR n. 131 del 1986, ha assoggettato all’aliquota dei trasferimenti immobiliari a titolo oneroso la registrazione della sentenza dichiarativa dell’acquisto della proprietà per usucapione.
Correttamente, quindi, la sentenza impugnata nell’esaminare la questione che interessa, ha dato rilievo alla predetta norma del 1989 per aver appunto questa equiparato dal punto di vista fiscale l’acquisto per usucapione all’acquisto a titolo oneroso.
Del resto, con la sentenza n. 3248/96, questa Suprema Corte ha ritenuto che la disposizione di cui all’art. 3, comma 131, della Legge 28 dicembre 1995 n. 549, nel “sostituire” la nota II bis dell’art. 1 della tariffa allegata al DPR 26 aprile 1986 n. 131 ha natura di interpretazione autentica e, come tale, trova immediata applicazione nei giudizi non ancora definiti” (vedi nello stesso senso Cass. 9648/99 e Cass. N. 29371/08).
B) Invece, successivamente, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 5447/08 del 27 novembre 2007, depositata il 29 febbraio 2008, ha stabilito un principio opposto, cioè l’inidoneità della sentenza dichiarativa di usucapione a costituire presupposto per l’applicazione dei benefici “prima casa” di cui alla legge n. 118/1985.
Infatti, “in adesione ai principi affermati dalla recente sentenza di questa Corte n. 23900 del 19 novembre 2007 (relativa alle agevolazioni per l’arrotondamento della piccola proprietà contadina previste dalla Legge n. 604/1954 e dalla Legge n. 246/1976), secondo cui la nota II bis apposta (in funzione antielusiva) all’art. 8 della tariffa allegata al DPR n. 131 del 1986 e che parifica la tassazione delle sentenze di usucapione a quella degli atti di trasferimento non consente l’estensione agli atti giudiziari accertativi dell’usucapione di qualunque norma, anche a carattere generale, agevolatrice degli atti di trasferimento a titolo oneroso.
Né può essere invocata l’applicazione analogica a fattispecie di acquisizione della proprietà a titolo originario,sia per l’insuscettibilità di applicazione analogica delle leggi eccezionali sia per la insussistenza della identità di ratio”.
C) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 24926 del 26 novembre 2009, in accoglimento del ricorso del Fisco, ha precisato che non gode delle agevolazioni fiscali prima casa il contribuente che ha fatto i lavori nell’immobile, ha chiesto l’abitabilità, ma ha ottenuto la residenza solo dopo lo scadere del termine previsto dalla legge.
D) A questo punto, per evitare ulteriori incertezze interpretative, è auspicabile un intervento risolutivo delle Sezioni Unite.
CASO N. 22
AGEVOLAZIONI PRIMA CASA
COMUNIONE LEGALE
A) L’agevolazione “prima casa” spetta sull’intero valore della compravendita qualora gli acquirenti siano coniugi in regime di comunione legale, anche se uno di essi sia “sprovvisto” dei requisiti richiesti dalla legge per avvalersi di questo beneficio fiscale.
Il suddetto principio, condivisibile, è stato sancito dalla Corte di Cassazione, Sezione trib., con l’ordinanza n. 15426/09 del 20 maggio 2009, depositata il 01 luglio 2009, osservando:
– “che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte, si è venuto ad affermare il principio per cui, nel caso di acquisto di appartamento ad uso abitativo da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, l’altro ne diviene comproprietario ex art. 177 codice civile con diritto a fruire delle agevolazioni fiscali contemplate in relazione all’acquisto della “prima casa” anche se sprovvisto dei requisiti di legge, sussistenti solo in capo al coniuge acquirente (cfr Cass. 14237/00, 8463/01);
– che a tale conclusione si è in particolare, pervenuti in base al rilievo che l’acquisto della comproprietà di un bene da parte dei coniugi in forza dell’art. 177 c.c. si differenzia ontologicamente dall’acquisto in comune del bene stesso, giacchè colui che diviene proprietario di metà del bene che, acquistato dal coniuge (presumibilmente con denaro proprio), è da questi fatto ricadere nella comunione legale non si rende “acquirente” del bene stesso, ma lo riceve per volontà della legge;
– che, di conseguenza, detto coniuge non è tenuto al possesso dei requisiti posti dalle disposizioni sulle agevolazioni tributarie sull’acquisto della “prima casa”, tanto più in considerazione del fatto che i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma reciprocamente alla coabitazione (art. 143 c.c.)…..elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini tributari”.
B) In precedenza, però, la Corte di Cassazione, Sezione trib., con la sentenza n. 8463 del 21 giugno 2001, aveva stabilito un principio opposto e cioè che “la presenza, rispetto ad uno solo dei compratori dei requisiti prescritti per ottenere le agevolazioni contemplate per la prima casa, giustifica la diversificazione della tassazione dell’atto con il riconoscimento delle agevolazioni limitatamente alla quota di pertinenza di quel coniuge”.
Principio, peraltro, più volte confermato anche dalle precedenti sentenze n. 3159/1996 e n. 8502/1996 (richiamate peraltro dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 38/E del 2005).
C) Infine, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 10011 del 16 gennaio 2009, depositata il 29 aprile 2009, ha stabilito che le agevolazioni prima casa spettano anche all’acquirente di immobile incorso di costruzione, da destinare ad abitazione “non di lusso”.
CASO N. 23
ABUSO DI DIRITTO
A) La Corte di Cassazione, in tema di abuso del diritto, anche sulla base dei principi comunitari, ha stabilito che opera il principio generale del divieto dell’abuso del diritto, che trova fondamento, per un verso, nei principi costituzionali di capacità contributiva (art. 53 Cost.) e di eguaglianza (art. 3 Cost.) (in questo senso, Corte di Cassazione, sentenza n. 30055 del 23 dicembre 2008) e, per altro verso, nella tendenza all’oggettivazione del diritto commerciale ed all’attribuzione di rilevanza giuridica all’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica assunta dall’imprenditore (Corte di Cassazione, sentenza n. 8481 dell’08 aprile 2009).
In particolare: “In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici” (in tal senso, Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 30055/2008 cit. e sentenza n. 13338 del 20 marzo 2009, depositata il 10 giugno 2009).
Da ultimo, l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 234/E del 24 agosto 2009, ha precisato che l’abuso del diritto entra anche nelle successioni in quanto la rinuncia non deve avere effetti sul prelievo.
La questione dell’abuso del diritto, soprattutto con le recenti e restrittive interpretazioni giurisprudenziali, sta creando gravi problemi ai contribuenti e per questo il 18 giugno 2009 è stata presentata una proposta di legge per una migliore e più chiara disciplina giuridica, specie per la tutela del contribuente nella fase di accertamento.
E’ fondamentale riconoscere che il contribuente non è obbligato a scegliere comunque la strada più onerosa.
B) Ad esempio, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 8481 dell’08 aprile 2009, ha stabilito che il contratto di lease back di beni ammortizzabili stipulati tra due società del medesimo gruppo è privo di valide ragioni economiche e perciò realizza un abuso di diritto tributario.
C) Inoltre, ultimamente, la Corte di Giustizia UE, nella causa C-2/08 (OLIMPICLUB), con la sentenza del 03 settembre 2009, ha stabilito che una interpretazione estensiva del giudicato esterno “avrebbe dunque la conseguenza che, laddove la decisione giurisprudenziale divenuta definitiva sia fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia di IVA in contrasto con il diritto comunitario, la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione”.
Tali effetti “non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere dunque considerati in contrasto con il principio di effettività”.
In definitiva, secondo i giudici comunitari, il c.d. giudicato esterno sopravvive soltanto quando non sia in conflitto con disposizioni tutelate a livello comunitario.
D) L’abuso del diritto colpisce anche le operazioni doganali se per eludere i contingentamenti e le restrizioni sull’importazione di una determinata merce viene utilizzata una società ritenuta prestanome.
Ciò perché è immanente nel diritto comunitario, interessato direttamente dai dazi doganali, una clausola generale “antiabusiva” per delegittimare le operazioni commerciali realizzate al fine di ottenere indebite agevolazioni daziarie.
Quanto sopra è stato evidenziato e stabilito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19827 depositata il 15 settembre 2009.
E) Infine, secondo la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 12042 del 25 maggio 2009, la violazione di un principio di ordine generale, qual è il divieto dell’abuso del diritto, rende inapplicabili le sanzioni trovando applicazione l’esimente di cui all’art. 8 del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, in presenza di obiettive condizioni di incertezza sull’ambito e la portata della disposizione violata.
F) La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con la sentenza n. 171/28/09 depositata il 23 novembre 2009, è giunta all’assurda conclusione che l’Amministrazione finanziaria può persino sindacare le procedure scelte dal contribuente per i rimborsi, eccependo l’abuso del diritto.
CASO N. 24
IL PRINCIPIO DI SPECIFICA CONTESTAZIONE
A) Il principio di specifica contestazione deve intendersi come onere di contestazione tempestiva, con il relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati e, a fortiori, non contestati “tout court”.
Il suddetto principio è stato inizialmente affermato:
– con riguardo al rito del lavoro (vedi per tutte Cass., Sez. Unite, sentenza n. 761 del 2002);
– poi esteso al rito civile riformato (vedi, tra le altre, Cass. Sentenze n. 394 del 2006 e n. 12636 del 2004).
Sull’applicabilità del suddetto principio anche nel processo tributario si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 1540 del 24 gennaio 2007, che ha precisato che: “l’onere di tempestiva contestazione è strumento neutro, direttamente connesso alla dinamica processuale, perciò di portata generale e prescindente dalle caratteristiche del processo in cui viene applicato non potendo peraltro astrattamente configurarsi alcuna incompatibilità neppure nell’ipotesi in cui si ritenga di condividere la tesi (tutt’altro che pacifica) dell’impugnazione-annullamento.
Né, d’altro canto, la natura documentale dell’istruttoria nel processo tributario può costituire un ostacolo, essendo anzi in tal modo più facile (specie considerando che si tratta di processi in cui una delle parti è soggetto pubblico) contestare tempestivamente e, in ogni caso, collaborare per ridurre i fatti veramente controversi alle necessità di accertamento giudiziale.
E’, infine, appena il caso di aggiungere che dall’esame della giurisprudenza di questo giudice di legittimità risulta che, sia pure con riferimento a “fatti” di rilevanza processuale (perciò non incidenti sul “merito” della controversia) e sia pure prescindendo da un’espressa affermazione teorica in proposito, il generale principio dell’onere di contestazione è stato di fatto già applicato nel processo tributario (v. ad esempio tra le altre, Cass. N. 915 del 2006)”.
B) Oggi, infine, il problema non dovrebbe più porsi perché con la recente riforma del processo civile (Legge n. 69 del 18 giugno 2009) l’art. 115 c.p.c., tra i poteri del giudice, testualmente dispone come regola generale per tutti i tipi di processo (quindi, anche quello tributario): “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita.”
Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.
La suddetta norma chiarisce, dunque, che la contestazione deve essere specifica e, pertanto, recepisce l’indirizzo più rigoroso in materia; la contestazione generica e, a fortiori, il mero silenzio d’ora innanzi saranno equiparati al difetto di contestazione.
CASO N. 25
RICORSO PER POSTA
DEPOSITO
A) In un primo momento, la Corte di Cassazione – Sezione Quinta Civile -, con la sentenza n. 20262/04 del 09 giugno 2004, depositata il 14 ottobre 2004, aveva formulato il seguente principio di diritto: “Il deposito del ricorso tributario notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, perché esso è sottratto alla regola dell’art. 16, comma 5, D.Lgs. n. 31 dicembre 1992 n. 546, il quale, oltre ad applicarsi agli oggetti suoi propri (per esempio, ex art. 23, comma 1, D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, alla costituzione in giudizio dalla parte resistente), si applicherà anche al deposito del ricorso notificato attraverso ufficiale giudiziario in conformità a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 2 aprile 2004 n. 107”.
Il suddetto principio, peraltro, era ribadito con la sentenza n. 14246 del 24 maggio 2007, depositata il 19 giugno 2007.
B) Successivamente, però, la Corte di Cassazione ha cambiato indirizzo e, con la sentenza n. 12185/08 del 15 febbraio 2008, depositata il 15 maggio 2008, ha sconfessato il suddetto orientamento, peraltro non consolidato, perché “non appare in armonia con la considerazione (presupposta, benché raramente esplicitata, dalla gran parte della giurisprudenza in materia di notificazioni), secondo cui la notificazione nel sistema processuale, comunque effettuata (e perciò sia a mezzo del servizio postale che a mezzo dell’ufficiale giudiziario), si perfeziona sempre nel momento in cui l’atto da notificare è ricevuto, essendo indiscutibile che quando nel processo si richiede, per la produzione di determinati effetti, la conoscenza di un atto da parte di uno o più soggetti, occorre, perché gli effetti si producano, che la prevista conoscenza intervenga, e sia una conoscenza “effettiva” (non convenzionale), sia pure nella sua espressione “legale”, ossia quella che si produce all’esito del procedimento del “notum facere”, appositamente preordinato per “certituire” in tempi brevi (e comunque prevedibili) la suddetta conoscenza e la prova certa di essa, nonché del momento in cui è intervenuta”.
Pertanto, “le notificazioni a mezzo del servizio postale “si considerano” effettuate nella data della spedizione,ma i termini che (come quello previsto per la costituzione dell’appellante) hanno inizio dalla notificazione decorrono (pur sempre) dalla data in cui l’atto è ricevuto (e non, come ritiene il ricorrente, dalla data in cui l’atto è stato spedito)”.
C) Infine, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 6780 del 12 novembre 2008, depositata il 20 marzo 2009, ha stabilito che, in tema di contenzioso tributario, è causa di inammissibilità dell’appello notificato per posta o per consegna diretta non la mancanza di attestazione da parte dell’appellante della conformità dell’atto di impugnazione notificato rispetto all’atto di notificazione depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria regionale ma l’effettiva difformità , che è onere dell’appellato di eccepire e che si presuppone verificata sia quando l’appellato si sia costituito in giudizio e non abbia sollevato alcuna eccezione al riguardo sia quando l’appellato non si sia costituito ed abbia, perciò, rinunciato a sollevare tale eccezione (rinvio al mio commento in Fiscalitax O.L. del 09 aprile 2009).
CASO N. 26
PROCESSO TRIBUTARIO
DEPOSITO DELL’AVVISO DI RICEVIMENTO
A) Dopo un lungo periodo di oscillazione giurisprudenziale, (cfr., fra le altre Cassazione, sentenze nn. 10506/2006, 2722/2005, 4900/2004 e 11257/2003), finalmente, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 627/2008, ha stabilito il principio che: “Per norma generale (art. 4, 3° co., legge 20 novembre 1982 n. 890), applicabile anche al contenzioso tributario, l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita notificazione e non rappresenta un momento strutturale del procedimento notificatorio. Quindi, la mancata produzione in atti di detto avviso, contrariamente all’opinione del giudicante a quo, non determina l’inesistenza della notificazione né impone di concludere nel senso che la notifica sia stata irrituale, cioè eseguita mediante raccomandata senza avviso di ricevimento; ma genera soltanto incertezza circa il suo perfezionamento”.
Seguendo il suddetto principio, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 2780/09 del 10 dicembre 2008, depositata il 05 febbraio 2009, ha precisato che: “In tema di notifica di atti del contenzioso tributario, eseguita tramite il sevizio postale, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, ai sensi dell’articolo 20, co. 2. D.Lgs. n. 546/1992 e della legge 20 novembre 1982, n. 890, il deposito dell’avviso suddetto, necessario per il controllo e validità della notifica, può essere effettuato fino all’udienza di trattazione della causa; se la parte notificante si trovi incolpevolmente nell’impossibilità di depositare l’avviso in tale termine, e la parte cui la notificazione era diretta non sia costituita in giudizio, può essere chiesto termine al giudice per la produzione dell’avviso stesso o di un duplicato, dimostrando di averlo chiesto all’amministrazione postale”.
B) La Corte di Cassazione con la sentenza n. 10678 dell’11 maggio 2009 ha stabilito che è nulla la sentenza della Commissione tributaria che, a fronte della presenza di un’istanza di pubblica udienza, tratta la causa in camera di consiglio.
CASO N. 27
ACCESSO ALLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA
A) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 16293/07 del 20 marzo 2007, depositata il 24 luglio 2007, risolvendo un contrasto giurisprudenziale, ha stabilito che: “ai fini dell’accesso alla giurisdizione tributaria devono essere qualificati come avvisi di accertamento o di liquidazione di un tributo tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita; ancorchè tale comunicazione si concluda non con una formale intimazione al pagamento sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito “bonario” a versare quanto dovuto.
Ciò appare essenziale, perché si possa parlare di avviso di accertamento o di liquidazione, che il testo manifesti una pretesa tributaria compiuta e non condizionata, ancorchè accompagnata dalla sollecitazione a pagare spontaneamente per evitare spese ulteriori (o anche essere ammesso a qualche beneficio).
A differenza di quanto può dirsi a proposito delle comunicazioni previste dal 3° comma dell’art. 36 bis del DPR 600/1973 e dal 3° comma dell’art. 54 bis del DPR 633/1972; queste comunicazioni costituiscono, infatti, anche un “invito” a fornire “eventuali dati o elementi non considerati o valutati erroneamente nella liquidazione dei tributi”.
Quindi, manifestano una volontà impositiva ancora in itinere e non formalizzata in un atto cancellabile solo in via di autotutela (o attraverso l’intervento del giudice).
Nell’ambito di questa impostazione di diritto, che l’ente impositore non può modificare a suo piacimento dichiarando “non impugnabili” atti che impugnabili sono, spetta al giudice di merito sceverare con congrua motivazione gli atti impositivi dagli atti che impositivi non sono, esaminando gli aspetti sostanziali dell’atto, che possono non trovare compiuta corrispondenza nei suoi aspetti formali (Cass. Sentenza n. 14482 del 29 settembre 2003)”.
B) In questo periodo, sussiste notevole incertezza circa la competenza a decidere sul diniego di rateizzazione della cartella esattoriale per debiti fiscali.
Infatti, mentre Equitalia SpA ritiene competente il giudice amministrativo (direttiva n. 2070 del 27 marzo 2008), invece, la Commissione Tributaria Provinciale di Cosenza (sentenza n. 437/01/09 depositata il 24 giugno 2009) ed il TAR Friuli (sentenza n. 452/2008) ritengono competente il giudice tributario.
C) Infine, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 10672 del 07 aprile 2009, depositata l’11 maggio 2009, ha stabilito, dopo una lunga diatriba giurisprudenziale, che il preavviso di fermo amministrativo ex art. 86 DPR n. 602/1973, che riguardi una pretesa creditoria dell’ente pubblico di natura tributaria, è impugnabile innanzi al giudice tributario, in quanto atto funzionale, in una prospettiva di tutela del diritto di difesa del contribuente e del principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, a portare a conoscenza del medesimo contribuente, destinatario del provvedimento di fermo, una determinata pretesa tributaria rispetto alla quale sorge ex art. 100 c.p.c. l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva.
D) In definitiva, sulla competenza o meno delle Commissioni tributarie, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, si è pronunciata con le seguenti sentenze:
– con la sentenza n. 4813 del 20 gennaio 2009, depositata il 27 febbraio 2009, ha stabilito la competenza del giudice tributario per le controversie aventi ad oggetto la restituzione IVA indebitamente versata nonché la proposizione della domanda da parte del cessionario anziché del contribuente;
– con la sentenza n. 5166 del 10 febbraio 2009, depositata il 04 marzo 2009, ha stabilito la competenza del giudice tributario per tutte le controversie relative alla decorrenza di un’agevolazione tributaria in materia di tributi doganali ed accise;
– con la sentenza n. 6064 del 17 febbraio 2009, depositata il 13 marzo 2009, ha invece stabilito la competenza del giudice ordinario in tema di espropriazione di beni mobili registrati;
– con la sentenza n. 6589 del 03 febbraio 2009, depositata il 19 marzo 2009, ha stabilito la competenza del giudice tributario in tema di impugnazione del diniego del rimborso delle accise sul gas metano, inglobate nel prezzo, avanzato dal consumatore all’Agenzia delle Dogane;
– con la sentenza n. 9669 del 07 aprile 2009, depositata il 23 aprile 2009, ha stabilito la competenza del giudice tributario in tema di diniego di autotutela.
E) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 12244 del 03 marzo 2009, depositata il 27 maggio 2009, ha stabilito che l’avviso di mora, non aggredendo alcun bene del debitore, non è un atto dell’esecuzione, né contiene una minaccia di procedere ad esecuzione forzata, avendo ad oggetto la semplice notizia dell’esistenza di un credito, con una sollecitazione al pagamento.
Ne consegue che, qualora l’avviso sia stato emesso per la riscossione di somme dovute a titolo di sanzione amministrativa, all’opposizione proposta ex. Art. 23 della Legge n. 689/1981 si applica la sospensione feriale dei termini, avendo il procedimento di opposizione ad ordinanza ingiunzione natura di giudizio di cognizione.
F) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15029 del 28 aprile 2009, depositata il 26 giugno 2009, ha precisato che il giudice tributario è sempre competente ad accertare in via incidentale la natura di atto simulato di un contratto, in quanto nel processo tributario, in forza dell’art. 2, comma 3, del D. Lgs. N. 546/92, il giudice può sempre rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità di atti, la cui validità ed opponibilità all’Amministrazione abbia costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente.
In ogni caso, se la questione di giurisdizione non viene sollevata entro la scadenza del termine per proporre appello, deve ritenersi formato il giudicato implicito sulla stessa, come stabilito dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15030 del 28 aprile 2009, depositata il 26 giugno 2009.
G) La Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza n. 17202 del 26 maggio 2009, depositata il 23 luglio 2009, ha ribadito il principio che l’elencazione degli atti impugnabili, contenuta nell’art. 19 D.lgs. n. 546/92, pur dovendosi considerare tassativa, va interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge n. 448/2001.
CASO N. 28
RIMESSIONE NEI TERMINI
A) La giurisprudenza della Corte di Cassazione è ormai consolidata nel circoscrivere le ipotesi di inammissibilità del ricorso tributario e quando riconosce l’errore scusabile del contribuente ne ammette la rimessione in termini.
Infatti, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19189/06 del 16 marzo 2006, depositata il 06 settembre 2006, ha precisato che l’equivoca o incompleta indicazione “del termine previsto a pena di decadenza per impugnare dinanzi all’autorità competente, può determinare l’errore incolpevole dell’interessato, in coerenza con il fondamento dell’istituto medesimo (che trova la sua base normativa nell’art. 34 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054), con conseguente riammissione in termini per l’impugnativa, ove questa sia stata proposta tardivamente (Cass. 5453/1999; 3473/2000; Cons. Stato, Sez. V, 15 aprile 1996, n. 434; Cons. Stato, Sez. IV, 30 marzo 2000 n. 1814)”.
Proseguendo sulla stessa linea interpretativa, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3559/09 del 03 novembre 2008, depositata il 13 febbraio 2009, ha ribadito che il giudice tributario, in caso di errore scusabile, deve rimettere nei termini il contribuente e provvedere ad ordinargli la rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c.
“In conclusione, devono considerarsi vigenti i seguenti principi di diritto o norme giuridiche:
a) “per il principio di collaborazione tra contribuente ed amministrazione finanziaria l’ufficio tributario deve informare il contribuente delle variazioni organizzative che modifichino il soggetto attivo del rapporto giuridico tributario oggetto di contenzioso”;
b) “incorre in errore scusabile il contribuente il cui atto di riassunzione della causa, rinviata dalla Corte di Cassazione al giudice di merito, sia stato rivolto e sia stato notificato ad un organo diverso da quello che era stato soggetto attivo del rapporto giuridico tributario controverso e che è divenuto successivamente incompetente per effetto di un atto interno di organizzazione amministrativa” (Cass. Sentenza n. 3559/09 cit.).
B) Oltretutto, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 8777/08 del 22 gennaio 2008, depositata il 04 aprile 2008, ha precisato che quando la notifica dell’atto di appello è stata effettuata alla parte personalmente e non nel domicilio eletto “si verte in ipotesi di notifica nulla, posto che, secondo la pacifica giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notifica eseguita in luogo diverso da quello dovuto è inesistente solo in difetto di ogni attinenza o riferimento o collegamento di quel luogo col destinatario, dovendo negli altri casi ritenersi la notifica nulla e come tale sanabile, con efficacia “ex tunc”, con la costituzione in giudizio della parte cui l’impugnazione è diretta, ovvero con la rinnovazione della notificazione, da eseguire in un termine perentorio assegnato dal giudice a norma dell’art. 291 cod. proc.” (principi, peraltro, ribaditi con la successiva sentenza n. 9377/09 del 16 febbraio 2009, depositata il 21 aprile 2009).
C) In definitiva, la Corte di Cassazione, Sez. trib., ha precisato che la rimessione in termini, prevista dall’art. 184 bis c.p.c., attiene soltanto ad eventuali nullità di ordine endoprocessuale, e cioè determinatesi nel corso del processo (ex plurimis, Cass. n. 12935/2000; n. 5778/2000; n. 6954/1999, n. 5197/1998), in cui le parti siano incorse per cause ad esse non imputabili, e non certo ad invalidità che investono il rituale instaurarsi del rapporto processuale (Cass., Sez. trib., sentenza n. 7814/03 del 19 giugno 2002, depositata il 19 maggio 2003).
Infatti, come appare evidente dalla sua stessa collocazione, (libro secondo, titolo I, capo II, sezione II della trattazione della causa), l’art. 184 bis c.p.c. riguarda le sole ipotesi in cui le parti costituite siano decadute dal potere di compiere determinate attività difensive nell’ambito della causa in corso di trattazione.
La suddetta norma, pertanto, non è invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio (Cass., Sez. trib.,sentenza n. 14482/03 del 30 aprile 2003, depositata il 29 settembre 2003).
D) In definitiva, per tutte le ipotesi esterne allo svolgimento del giudizio vige la regola della improrogabilità dei termini perentori art. 153 c.p.c.), che impedisce di utilizzare l’istituto in discorso anche per le decadenze relative al compimento del termine perentorio per instaurare il giudizio (cfr. e plurimis, Cass. nn. 10094/1997, 8999/99, 5778/2000, 9178/2000, 15491/2000, 2875/2002, 11136/2002, 11212/2002, 1285/2003).
E) Oggi, però, la suddetta interpretazione giurisprudenziale non è più valida perché, con la recente riforma del codice di procedura civile (Legge n. 69 del 18 giugno 2009), il legislatore ha abrogato l’art. 184-bis cit. al fine di “spostare” questa norma all’interno dell’art. 153 c.p.c. e cioè all’interno della disposizione che sancisce l’improrogabilità dei termini perentori.
Alla rimessione in termini nel processo civile si è voluta, così, imprimere la valenza di istituto processuale non più speciale, ma generale, con conseguente allargamento del suo ambito applicativo anche ai poteri processuali esterni allo svolgimento del giudizio, come quello di impugnare, di proseguire o riassumere il giudizio.
CASO N. 29
VERIFICHE INDIRETTE
In passato la Corte di Cassazione, probabilmente più per una sorta di senso di giustizia sostanziale che per questioni di diritto, ha normalmente avallato la tesi dell’Amministrazione finanziaria secondo la quale, in presenza di segnalazioni proveniente da un controllo presso terzi, l’art. 39 DPR n. 600/73 va interpretato nel senso che nessun ulteriore riscontro sia necessario nei confronti del contribuente.
Negli ultimi mesi, invece, i giudici di legittimità stanno rivedendo questo orientamento, richiedendo all’Amministrazione finanziaria ed ai giudici di merito di valutare attentamente che gli elementi acquisiti presso il terzo, pur non necessitando di obbligatori riscontri presso il contribuente, debbano essere supportati da gravità precisione e concordanza sufficiente a far valere la pretesa impositiva anche nei confronti del soggetto che non è stato sottoposto a verifica diretta.
Infatti, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con le sentenze nn. 14014/09 e 14017/09 dell’08 aprile 2009, depositate il 17 giugno 2009, ha precisato che “nella sentenza impugnata la CTR ha fornito, sia pure sinteticamente, una congrua e corretta motivazione in ordine alla mancata idoneità degli elementi indiziari risultanti dai documenti extracontabili rinvenuti presso la ditta venditrice a rappresentare presunzioni gravi, precise e concordanti legittimanti la rettifica nei confronti della società contribuente”.
CASO N. 30
REDDITOMETRO
A) La Corte di Cassazione ha più volte affermato che i decreti ministeriali che fissano coefficienti presuntivi di reddito, ai sensi dell’art. 38, quarto comma, D.Lgs. n. 600/73, non hanno efficacia sostanziale; non creano nuova materia imponibile; non incidono direttamente sulla determinazione del reddito. Ma sono oggetto di norme rivolte agli uffici fiscali; di natura procedimentali; espressione della funzione amministrativa di indirizzo; le quali regolano le modalità di esercizio del potere di accertamento, limitandone la discrezionalità e vincolandola a criteri determinati, in funzione di garanzia della trasparenza ed uniformità dell’azione amministrativa.
Ciò stante, l’utilizzo dei coefficienti presuntivi indicati nei redditometri, anche se contenuti in decreti ministeriali successivi, non comporta applicazione retroattiva di disposizioni normative, ma implica soltanto una valutazione di pertinenza al caso in esame di parametri e calcoli statistici di provenienza qualificata e di attitudine indiziaria indipendente dal tempo di elaborazione.
In ogni caso, il contribuente è libero di contestare le suddette risultanze come peraltro prevede l’art. 38, comma 6, DPR n. 600/73, contrapponendo alla presunzione di legge prove contrarie, che dimostrino la disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.
I suddetti principi sono stati più volte ribaditi dalla Corte di Cassazione, Sez. trib., con le seguenti sentenze nn. 13415/2000, 11611/2001, 2123/2002, 14161/2003, 19252/2005, 22932/2007, 11607/2001, 12731/2002.
B) Al tempo stesso, però, la Corte di Cassazione ha precisato che in sede di accertamento sintetico da redditometro non bisogna tener conto dei beni indicati in un decreto ministeriale che ha modificato un precedente decreto ministeriale riferito agli anni in contestazione.
Infatti, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 10028/09 dell’01 aprile 2009, depositata il 29 aprile 2009, ha precisato:
“In relazione a tali circostanze, il giudice d’appello ha osservato non potersi dubitare “che i decreti ministeriali del 1992 rappresentino una modifica rispetto alla normativa previgente, sia sul piano procedurale che su quello sostanziale, non solo perché prendono in considerazione indici di capacità contributiva prima ininfluenti, come la residenza principale, ma soprattutto perché, lungi dal rappresentare un semplice aggiornamento ISTAT delle tabelle precedenti, stabiliscono una normativa diversa di calcolo, con differenti parametri di base e con nuovi coefficienti di valutazione, oltreché con diverso sistema di abbattimento progressivo delle voci reddituali, successive a quella di maggior importo: il tutto con incidenza sull’ammontare del tributo richiesto”.
Ha conseguentemente ritenuto che l’avviso di accertamento impugnato, facendo applicazione dei DD. MM. Del 1992 per la determinazione, in via sintetica ed induttiva, del reddito dell’anno 1989, avesse violato in danno del contribuente il principio di irretroattività della normativa tributaria, riaffermato dall’art. 3 della legge 212/2000 quale principio informatore dell’ordinamento tributario, da valere in ogni caso quale principio di interpretazione delle sue disposizioni anche pregresse.
C) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 12731/2002 ha stabilito che “il contribuente può, tuttavia, chiedere, qualora l’accertamento non sia divenuto definitivo, che il reddito venga rideterminato sulla base dei criteri adottati nell’art. 3, avendo esso palese finalità transitoria e, salva la definitività dell’accertamento, consentendo al contribuente di chiedere all’ufficio l’applicazione dei nuovi criteri”, soprattutto se più favorevoli.
D) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 237/09 del 21 ottobre 2008, depositata il 09 gennaio 2009, ha precisato che, per l’applicazione del redditometro, il riferimento può essere fatto anche a due anni non consecutivi, con ciò sconfessando un’interpretazione ministeriale, che non è mai idonea ad incidere sul rapporto tributario (v. tra le altre Cass. n. 14619 del 2000).
E) Infine, va segnalata una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione trib. (n. 2752 del 2009),che ha affermato che il solo biglietto vincente di una lotteria, per confermare il proprio tenore di vita e contrastare il redditometro, non vale di per sè a giustificare l’avvenuta vincita; il contribuente, quindi, deve mostrare anche i documenti che certificano l’avvenuto incasso a proprio beneficio.
Infatti, con altra recente sentenza n. 16506/09 del 05 giugno 2009, depositata il 15 luglio 2009, la Corte ha ribadito il seguente principio di diritto:
“La disponibilità di tali beni,come degli altri previsti dalla norma, costituisce, quindi, una presunzione di “capacità contributiva” da qualificare “legale” ai sensi dell’art. 2728 cod. civ., perché è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto (certo) di tale disponibilità la esistenza di una “capacità contributiva”.
Pertanto, il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici “elementi indicatori di capacità contributiva” esposti dall’ufficio, non ha il potere di togliere a tali “elementi” la capacità presuntiva “contributiva” che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale (e. quindi, non imponibile o perché già sottoposta ad imposta o perché esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma”.
Per concludere sulle problematiche del redditometro, è utile rammentare che la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 7080 del 14 aprile 2004, ha avuto modo di precisare che qualora una normativa fiscale sia suscettibile di una duplice interpretazione di cui una ne comporti la retroattività ed una che la escluda “l’interprete dovrà dare preferenza a questa seconda interpretazione come conforme a criteri generali introdotti con lo Statuto del contribuente e, attraverso di esso, ai valori costituzionali intesi in senso ampio ed interpretati direttamente dallo stesso legislatore attraverso lo Statuto”.
CASO N. 31
IMPUGNAZIONE DEL PREAVVISO DI FERMO
A) In un primo momento, la Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, con la sentenza n. 8890/09 del 25 novembre 2008, depositata il 14 aprile 2009, ha precisato che “la comunicazione preventiva di fermo amministrativo (c.d. di preavviso) di un veicolo, notificata a cura del concessionario esattore, non arrecando alcuna menomazione al patrimonio, poiché il presunto debitore, fino a quando il fermo non sia stato iscritto nei pubblici registri, può pienamente utilizzare il bene e disporne, è atto non previsto dalla sequenza procedimentale dell’esecuzione esattoriale e, pertanto, non può essere autonomamente impugnabile ex art. 23 L. n. 689/81, non essendo il destinatario titolare di alcun interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 cod. proc. Civ. (Cass. sent. N. 20301/08)”.
B) Successivamente, però, le Sezioni Unite della Cassazione, con l’ordinanza n. 10672/09 del 07 aprile 2009, depositata l’11 maggio 2009, hanno totalmente sconfessato il suddetto indirizzo interpretativo, stabilendo, invece, il seguente principio di diritto:
“il preavviso di fermo amministrativo ex art. 86 DPR n. 602 del 1973 che riguardi una pretesa creditoria dell’ente pubblico di natura tributaria è impugnabile innanzi al giudice tributario in quanto atto funzionale, in una prospettiva di tutela del diritto di difesa del contribuente e del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, a portare a conoscenza del medesimo contribuente, destinatario del provvedimento di fermo, una determinata pretesa tributaria rispetto alla quale sorge ex art. 100 c.p.c. l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva”.
C) La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con l’ordinanza n. 15424 dell’01 luglio 2009, ha stabilito che il Fisco non può mai bloccare il rimborso Iva con il fermo amministrativo.
D) Da ultimo, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 555 depositata il 14 gennaio 2009, per quanto riguarda il fermo amministrativo, ha stabilito che, ai fini della giurisdizione, rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo e che, pertanto, essa spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crediti, ovvero di entrambi se il provvedimento di fermo si riferisce in parte a crediti tributari ed in parte a crediti non tributari.
E) La Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, con la sentenza n. 44498 del 19 novembre 2009 ha stabilito che non può ritenersi violato l’art. 334 del Codice Penale quando “la materialità di sottrazione abbia ad oggetto beni sottoposti a provvedimento di fermo amministrativo”.
Inoltre, non è reato circolare con il veicolo sottoposto a fermo amministrativo.
Il veicolo può circolare quando il proprietario ha ricevuto soltanto il preavviso e fino a quando il fermo non sia stato iscritto nei pubblici registri.
F) Si fa presente che il TAR del Lazio, con la sentenza n. 11673 del 25 novembre 2009, ha condannato il Ministero dell’Economia al risarcimento dei danni derivanti da un illegittimo fermo amministrativo che non era stato cancellato nei termini, pur avendo il contribuente anni prima presentato una regolare domanda di condono.
L’uso del fermo amministrativo, per quanto questo sia uno strumento utile a garanzia dei crediti erariali, non è rimesso al mero arbitrio della pubblica amministrazione e va gestito con ragionevolezza e proporzionalità.
CASO N. 32
NOTIFICA AL PROCURATORE DI PIU’ PARTI
A) L’art. 330, comma 1, c.p.c. testualmente dispone: “Se nell’atto di notificazione della sentenza la parte ha dichiarato la sua residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l’ha pronunciata, l’impugnazione deve essere notificata nel luogo indicato; altrimenti si notifica presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio”.
Il primo problema che si pone è se il suddetto art. 330 c.p.c. è applicabile anche nel processo tributario, in particolare nella parte in cui dispone l’eseguibilità della notifica dell’impugnazione “presso il procuratore costituito”.
B) La risoluzione del suddetto problema è importante perché una sentenza della Corte di Cassazione (n. 12098 del 2007) ha assunto, in proposito, una posizione negativa, escludendo l’applicabilità nel processo tributario dell’art. 330 c.p.c., mentre altra pronuncia della medesima Sezione (sia pure per implicito, facendo applicazione della citata norma del codice di rito) ha assunto una posizione positiva (Cass., Sez. trib., sentenza n. 8972 del 2007).
C) A questo punto, ultimamente, è intervenuta la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 29290/08 del 10 giugno 2008, depositata il 15 dicembre 2008, ha accolto la tesi favorevole all’applicazione dell’art. 330 c.p.c. nel processo tributario.
D) Di conseguenza, con la succitata sentenza, la Corte ha precisato che:”ai fini della validità della notificazione al procuratore costituito che rappresenti una pluralità di parti, è sufficiente che a quest’ultimo venga consegnato un numero di copie corrispondente al numero delle parti rappresentate (criterio quantitativo), senza che sia necessaria l’identificazione specifica nella relata di ciascuna delle parti: è evidente che presupposto di tale affermazione sia l’idea che il procuratore costituito sia un quid pluris di un mero consegnatario, dato che spetterebbe ad esso (e non al notificante) specificare le singole parti cui l’atto è diretto.
Un compito che il procuratore costituito stante, da un lato, lo sviluppo dei mezzi di riproduzione, e, dall’altro, l’inderogabile obbligo che egli ha di fornire informazioni al proprio assistito sullo svolgimento e sull’esito del processo può ben assolvere anche nel caso gli sia consegnata un’unica copia dell’impugnazione.
Ritenere che, in caso di consegna di un’unica copia sia necessaria una rinnovazione della notifica, appare, quindi, in questo quadro “nuovo”, puro formalismo (peraltro, non imposto dalla norma) in contrasto con le esigenze di efficienza e semplificazione, le quali impongono di privilegiare interpretazioni coerenti con la finalità di rendere giustizia, in un tempo ragionevole (vedi per la necessità di superare formalismi ostativi all’istanza di giudizio secondo il principio del giusto processo, Cass. nn. 24856/2006; SS.UU. 13916 del 2006; 23220 del 2005; 10963 del 2004).
Ancor più perché l’ordinamento sembra, in linea generale, privilegiare l’idea che meglio possa essere tutelato il diritto di difesa del cittadino se gli atti processuali pervengono nella sfera di conoscenza di chi abbia competenza tecnica per suggerire le azioni da adottare”.
Infine, sull’obbligo della notifica presso il domicilio eletto e sugli effetti processuali in caso di inosservanza, si rinvia alle già citate sentenze n. 8777/08 e n. 9377/09 della Corte di Cassazione – Sez. tributaria -.
E)Da ultimo, la Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 22518 del 23 ottobre 2009 ha ribadito che non può essere ritenuto inammissibile l’appello nel caso in cui il Fisco abbia notificato una sola copia del ricorso al difensore che assiste più contribuenti.
Per i Giudici di legittimità, la notifica di un solo atto di impugnazione al procuratore che rappresenti più parti “è valida ed efficace sia nel processo ordinario che in quello tributario, in virtù della generale applicazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.”
Del resto, il difensore “non è un mero consegnatario dell’atto di impugnazione, ma ne è il destinatario”.
Quindi, è tenuto a fornire ai propri rappresentati tutte le informazioni utili allo svolgimento ed all’esito del processo.
CASO N. 33
NOTIFICHE AL FALLITO
A) Secondo l’ampiamente consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’accertamento tributario che inerisca ad obbligazioni i cui presupposti si siano verificati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente deve essere notificato non solo al curatore fallimentare, in ragione della partecipazione al concorso fallimentare, ma anche al contribuente, che, tornato in bonis, resta direttamente tenuto al soddisfacimento del debito tributario non soddisfatto dal fallimento, sicchè è nullo l’atto esattivo emesso nei confronti del fallito tornato in bonis cui, tuttavia, non sia stato notificato in precedenza il relativo avviso di accertamento (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 29642 del 18 dicembre 2008; sentenze n. 4235/06, n. 6937/02, n. 14987/00, n. 3667/97 e n. 7561/95).
B) La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con l’ordinanza n. 21031 del 16 giugno 2009, depositata il 30 settembre 2009, ha stabilito che i ricorsi del Fisco sono nulli e non inesistenti con la notifica al procuratore del fallito, in base al seguente principio di diritto:
“Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità, in assenza di valide ragioni per discostarsene), qualora uno degli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo (nella specie, il fallimento della parte) si verifichi nel corso del giudizio (nella specie, di primo grado), prima della chiusura della discussione, e tale evento non venga dichiarato ne’ notificato, dal procuratore della parte cui esso si riferisce, a norma dell’art. 300 c.p.c., la successiva impugnazione (nella specie, appello) deve essere instaurata da e contro i soggetti effettivamente legittimati, alla luce dell’art. 328 c.p.c., dal quale si desume la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell’impugnazione, con piena parificazione, a tali effetti, tra l’evento verificatosi dopo la sentenza e quello intervenuto durante la fase attiva del giudizio e non dichiarato ne’ notificato, con la conseguenza che l’impugnazione effettuata alla parte non più legittimata è affetta da nullità rilevabile d’ufficio e suscettibile di sanatoria – con efficacia solo “ex nunc” limitatamente all’ipotesi, non ricorrente nella specie, di processi pendenti alla data del 30 aprile 1995 – (v. Cass. n. 3351 del 2007).
Anche alla luce della giurisprudenza sopra citata, il terzo motivo di ricorso (col quale si deduce violazione degli artt. 156, 291 e 300 c.p.c.), deve invece ritenersi manifestamente fondato, atteso che dalla sentenza impugnata risulta che l’appello fu regolarmente notificato alla fallita in bonis presso il domicilio eletto e che in giudizio si e’ costituito il curatore del fallimento, ed in particolare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora sia intervenuta la dichiarazione di fallimento della parte, la notifica dell’atto di appello, effettuata presso il procuratore domiciliatario del fallito “in bonis” anziché nei confronti del curatore del fallimento, non e’ inesistente ma nulla, essendo ravvisabile un collegamento tra la figura del curatore e la persona del fallito, e di conseguenza l’avvenuta costituzione del fallimento in appello ha efficacia sanante “ex tunc” (v. Cass. n. 7252 del 2006).”.
CASO N. 34
NOTIFICA DEGLI ATTI PRESUPPOSTI
A) Dopo un lungo periodo di contrastanti interpretazioni giurisprudenziali, finalmente la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con l’importante sentenza n. 5791 del 04/03/2008 ha stabilito il seguente principio di diritto:
“In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poiché tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo, la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa”.
Il suddetto principio è stato ribadito anche dalla Corte di Cassazione – Sez. trib. – con la sentenza n. 15525/09 del 18 marzo 2009, depositata il 02 luglio 2009.
B) Le suesposte considerazioni valgono anche per l’omessa notifica di avvisi di accertamento effettuati in epoca anteriore alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 46 del 26 febbraio 1999 (Cass., Sezioni Unite, sentenza n. 16412 del 25 luglio 2007 e Cass., sentenza n. 15525/09 cit.).
C) Da ultimo, la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 21891 del 06 ottobre 2009, depositata il 15 ottobre 2009, ha ribadito che nel processo tributario tutte le contestazioni relative alla legittimità formale e sostanziale degli atti di imposizione attengono alla materia della cognizione, e non dell’esecuzione, e sono come tali funzionalmente devolute al giudice tributario.
Ne consegue che là dove il contribuente contesti la legittimità dell’avviso di mora, perché immotivato e non preceduto dalla notifica della cartella di pagamento, la relativa controversia spetta solo al giudice tributario.
L’avviso di mora, infatti, non è un atto dell’esecuzione, ma un atto prodromico all’esecuzione e, come tale, esso può essere impugnato innanzi al Giudice tributario, cui spetta la giurisdizione esclusiva in materia.
D) La Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con l’importante sentenza n. 20098 del 08 luglio 2009, depositata il 18 settembre 2009, ha confermato l’invalidità della cartella di pagamento per vizio di notifica dell’avviso di accertamento, in base ai seguenti principi di diritto:
“E’ principio generale riconosciuto da una giurisprudenza consolidata dalla Corte, a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 6412/07, che l’invalidità dell’atto impositivo può essere dedotta, sia come vizio proprio di tale atto, sia come vizio del procedimento, dal quale deriva l’invalidità degli atti successivi, nell’ambito dell’impugnazione di questi ultimi, senza che tale impugnazione possa comunque dar luogo ad una sanatoria degli atti non specificamente impugnati. Strada che, nella specie era stata comunque scelta dalla contribuente, che aveva impugnato la cartella facendo valere il vizio di notificazione di un atto presupposto. Secondo la giurisprudenza della Corte (Sez. Un., 5791/08), è compito del giudice di merito ricostruire l’oggetto della domanda, al fine di verificare se il ricorrente abbia inteso impugnare, congiuntamente alla cartella, anche l’atto presupposto, conosciuto tardivamente a causa della sua omessa o irregolare notificazione, deducendo anche vizi propri di tale atto, ovvero limitarsi a dedurre il vizio di notifica come attinente al procedimento ed inficiante la cartella e gli altri atti di riscossione.
Nel secondo caso, naturalmente, il giudice dovrà limitarsi ad annullare la notifica dell’atto impositivo e la cartella. Naturalmente, per quanto attiene all’atto impositivo, si porrà il problema della decadenza che si fosse nel frattempo verificata.
È opportuno inoltre, rilevare che l’impugnazione della cartella (che nella specie si fonda, oltretutto, su un vizio derivato) non dà luogo ad un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei confronti del concessionario (da ultima, sentenza della Sezione n. 933/2009).
Pur essendo stata dichiarata inammissibile la seconda censura svolta dall’Agenzia delle Entrate col secondo motivo del ricorso incidentale, la Sezione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, rileva che l’impugnazione di un atto non compreso nel catalogo degli atti impugnabili di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 non introduce una questione di giurisdizione ma pone soltanto un problema di proponibilità della domanda. Ciò in quanto, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte (Sez. Un., n. 20889/06), la giurisdizione del giudice tributario è attribuita ratione materiae.
La Corte deve, quindi, pronunciare i seguenti principi di diritto:
a) il ricorso al procedimento di notificazione di cui all’art. 140 c.p.c. richiede che l’organo delle notificazioni indichi specificamente le ragioni per cui non ha potuto procedere secondo le forme di cui all’art. 139 c.p.c. descrivendo, in particolare, le infruttuose ricerche del destinatario nel luogo di residenza, di dimora o di domicilio;
b) secondo il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, la cartella esattoriale può essere impugnata per omessa o invalida notificazione di un atto presupposto, quale l’avviso di accertamento, di rettifica o liquidazione, vizio procedimentale che determina l’invalidità della cartella stessa, anche se non viene impugnato l’atto presupposto, attraverso la deduzione di vizi propri di quest’ultimo; l’impugnazione della cartella per vizio della notifica dell’atto presupposto non può dar luogo a sanatoria di tale vizio”.
E) Inesistenza della notifica a mezzo posta degli atti di Equitalia.
Secondo la Ctp di Lecce (sentenza n. 909/05/09 del 23 ottobre scorso), la notifica, a mezzo posta, degli atti di Equitalia eseguita direttamente e non tramite agente all’uopo abilitato è inesistente.
La vicenda trae origine dall’omesso versamento d’imposte (Iva, Irpef e Irap), contestato a un contribuente da parte dell’Amministrazione finanziaria. Essendo decorsi gli ordinari termini per il pagamento del richiesto, il Concessionario iscrive a ruolo il debito tributario e, successivamente, decorsi gli ordinari termini di legge, iscrive ipoteca sugli immobili del contribuente, ai sensi dell’articolo 77 del Dpr 602/73. Tale iscrizione, ritenuta illegittima dallo stesso contribuente, viene da questo tempestivamente impugnata.
Il contribuente, in sede d’impugnazione, oltre a mettere in dubbio la legittimità dell’iscrizione ipotecaria, contesta l’inesistenza della notifica del provvedimento stesso, poiché questo non è stato notificato tramite agente notificatore abilitato ed autorizzato.
Difatti, sebbene l’articolo 26, primo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, rubricato “Notificazione della cartella di pagamento”, preveda la possibilità, per gli Agenti della riscossione, di notificare i propri atti per posta mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, esso, tuttavia, individua espressamente quali agenti notificatori gli ufficiali della riscossione o altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, i messi comunali o gli agenti della polizia municipale.
In base al primo comma dell’articolo 26 cit., quindi, secondo il contribuente, la notificazione deve sempre essere effettuata da un agente notificatore abilitato, il quale può anche avvalersi del servizio postale, mentre sono certamente illegittime le notifiche eseguite a mezzo del servizio postale direttamente e non tramite agente all’uopo abilitato. Poiché, tuttavia, nel caso de quo, le condizioni di cui all’art. 26 cit. non sono state rispettate, il contribuente eccepisce l’inesistenza della notifica dell’atto impugnato.
Avverso tale eccezione, poi, l’Agente della riscossione, a sostegno della legittimità del suo operato, invoca, invece, il solo secondo periodo del succitato art. 26, primo comma, secondo il quale «la notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento».
Tuttavia, stando al parere della Commissione adita, mentre il primo periodo del comma 1 dell’articolo 26 si limiterebbe a individuare – con un’elencazione tassativa – i soggetti legittimati all’esecuzione della notifica, il secondo periodo del comma 1 indicherebbe il modo attraverso il quale i soggetti di cui al periodo precedente possono eseguirla. In pratica, pur rimanendo fermi i soggetti autorizzati, questi, a loro volta, invece che direttamente, possono ricorrere all’ausilio del servizio postale per la notifica degli atti.
In ragione di ciò, quindi, la Commissione tributaria, accogliendo le doglianze del contribuente, poiché nel caso de quo non risultano rispettate le condizioni tassative di cui all’art. 26 cit., dichiara la notifica dell’atto impugnato giuridicamente inesistente.
Orbene, alla luce di quanto enunciato, si può concludere rilevando che, innanzitutto, la sentenza in commento della Ctp di Lecce n. 909/05/09 del 23 ottobre scorso, risulta innovativa, su un tema delicato qual è per l’appunto quello delle notifiche e, nello specifico di quelle a mezzo posta, colmo di incertezze, come da ultimo statuito dalla Suprema Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 9493 e 9377 del 2009, che tuttavia hanno affrontato l’argomento relativamente all’aspetto oggettivo e non, come nel caso de quo, soggettivo.
Ancor più importanti, infine, sono gli effetti che la sentenza in commento, laddove confermata dai giudici di grado superiore, potrebbe produrre nei confronti dell’Agente della riscossione, che, in ragione di tale pronuncia, assisterebbe alla dichiarazione d’inesistenza di tutte le notifiche, relative ai suoi atti, eseguite per posta direttamente e non da soggetto all’uopo abilitato così come prescritto dalla norma, peraltro con possibile condanna alle spese, come nel caso de quo.
CASO N. 35
GLI STUDI DI SETTORE
L’art. 62 sexies, terzo comma, del decreto legge 30 agosto 1993 n. 331, convertito in Legge n. 427 del 29 ottobre 1993 prevede che gli accertamenti di cui agli artt. 39, primo comma, lettera d), del DPR n. 600/1973 e quelli di cui all’art. 54 del DPR n. 633/1972 “possono essere fondati anche su gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto”.
Per determinare il reddito presuntivo spesso l’Amministrazione finanziaria fa riferimento agli studi di settore, sulla cui validità ed efficacia ancora non esiste una costante ed uniforme interpretazione giurisprudenziale.
A) Con un primo gruppo di sentenze, la Corte di Cassazione ha cercato di giustificare gli avvisi di accertamento fondati sugli studi di settore .
Infatti:
con la sentenza n. 21165/05 dell’08 giugno 2005, depositata il 31 ottobre 2005, ha affermato che: “Appare del tutto errata perciò l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui non sarebbero possibili rettifiche tributarie in presenza di una contabilità formalmente regolare: in realtà, il giudice d’appello non ha tenuto conto delle espresse indicazioni delle norme positive, né del contenuto dell’art. 62 sexies del decreto legge n. 331/1993, né di quello dell’art. 54 della legge n. 633/1972”;
– inoltre, sempre con la succitata sentenza, la Corte ha precisato che l’art. 62 sexies può essere applicato anche ad anni d’imposta precedenti l’approvazione del decreto legge n. 331/1993 (a tal proposito, per casi analoghi, si citano le sentenze della Corte n. 2123/2002, n. 14161/2003, n. 12731/2002, n. 8272/2002, n. 11607/2001);
– con la sentenza n. 15808/06 del 23 novembre 2005, la Corte ha precisato: “E’ infatti pacifico nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui la inattendibilità dei dati contabili di una impresa può derivare dagli elementi induttivi che fanno presumere una non corrispondenza al reale dei ricavi dichiarati. E’ quindi consentito in proposito il richiamo ai redditometri, e ad altri criteri presuntivi, quali per i ristoranti il consumo di tovaglioli (cfr. da ultimo la sentenza di questa Corte n. 16048 del 29 luglio 2005)”;
– con la sentenza n. 30188 del 05 dicembre 2008, depositata il 23 dicembre 2008, la Corte ha ribadito l’applicazione retroattiva degli studi di settore, in quanto l’art. 62 cit. “costituisce un criterio di valutazione migliore degli elementi presuntivi rispetto ai precedenti parametri”;
– infine, con la sentenza n. 2876/09 del 22 ottobre 2008, depositata il 06 febbraio 2009, lo studio di settore “costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. nn. 10649/2001, 8494/1998, 4555/1998).
B) Invece, con un secondo gruppo di sentenze, la stessa Corte ha fortemente ridimensionato il valore degli studi di settore.
Infatti:
– con la sentenza n. 13995 del 27 settembre 2002, la Corte ha precisato che lo studio di settore “costituisce pur sempre un dato che abbisogna del conforto di qualche ulteriore elemento (Cass. sentenze nn. 2000/06499 e 2001/07015) per giustificare l’attribuzione di un maggior reddito all’interessato”; concetto ultimamente ripreso dalla stessa Agenzia delle Entrate con la circolare 13/E/2009, con la nota interna del 04 giugno 2009, e con la circolare n. 5/E/2008;
– con l’importante sentenza n. 17229/06 del 09 febbraio 2006, depositata il 28 luglio 2006, la Corte ha ribadito che gli studi di settore rappresentano una presunzione semplice (presumptio hominis) ed inoltre che, senza contraddittorio, “è vano invocare uno studio di settore, che ha struttura oggettiva e soggettiva categoriale e, quindi, di genere, come strumento idoneo a regolare, di per sé, un caso di specie ultima. In tal senso è orientata la giurisprudenza di questa Corte nelle sentenze 3 maggio 2005, n. 9135; 23 giugno 2003 n. 9946; 27 settembre 2002 n. 13995”; in definitiva, secondo la succitata sentenza n. 17229/2006, gli studi di settore, come presunzione semplice, hanno natura di atti amministrativi generali di organizzazione, che da soli non si possono considerare sufficienti perché l’Ufficio possa considerare completata l’attività istruttoria nel rispetto del principio generale del giusto procedimento;
– con la sentenza n. 26204/08 dell’08 ottobre 2008, depositata il 30 ottobre 2008, la Corte ha ribadito il concetto che lo studio di settore non è una presunzione assoluta e “non impedisce al contribuente di provare (e quindi al giudice di stabilire) l’inattendibilità del risultato nel caso concreto per la presenza di elementi di fatto che inducono a ritenere eccentrica la situazione del contribuente rispetto a quella considerata come statisticamente prevalente dagli studi di settore”.
C) Pertanto, in mancanza di un’interpretazione univoca sugli studi di settore, è auspicabile un sollecito intervento delle Sezioni Unite, come peraltro evidenziato dal comunicato stampa della stessa Corte di Cassazione del 29 luglio 2009 (in “Il Sole 24-Ore” di giovedì 30 luglio 2009).
D) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 19632 del 26 maggio 2009, depositata l’11 settembre 2009, ha stabilito che, in tema di imposte sui redditi di impresa minore, perché sia legittima l’adozione da parte dell’ufficio tributario, ai fini dell’accertamento di un maggior reddito d’impresa, del criterio induttivo di cui all’art. 39, comma 2, del DPR 29 settembre 1973 n. 600, non basta il solo rilievo dell’applicazione da parte del contribuente di una percentuale di ricarico diversa da quella risultante da uno studio di settore, ma occorre che risulti qualche elemento ulteriore incidente sull’attendibilità complessiva della dichiarazione.
E) Nessun dubbio sussiste circa l’obbligatorietà del contraddittorio in materia di studi di settore, anche prima che la Legge n. 311 del 30 dicembre 2004 lo prevedesse espressamente, la cui omissione comporta la nullità dell’accertamento.
Il suddetto principio è stato più volte ribadito dalla Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con le seguenti sentenze:
– n. 17229 del 28 luglio 2006;
– n. 13995 del 27 settembre 2002;
– n. 9946 del 23 giugno 2003;
– n. 9135 del 03 maggio 2005.
F) Inoltre, è ormai acquisito il principio della prevalenza degli studi di settore sui parametri, laddove relativi al medesimo settore economico cui appartiene il contribuente interessato all’accertamento, avendo i primi natura più raffinata, quale nuovo mezzo di accertamento desumibile dalla normativa che lo ha introdotto.
Il suddetto principio è stato precisato dalla Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 9613/2008 e relazione n. 94 del 09 luglio 2009 – Ufficio del massimario -.
Oltretutto, quanto sopra esposto è stato ribadito dall’Agenzia delle Entrate con le circolari n. 25/2001 e n. 58/2002.
CASO N. 36
ACCERTAMENTI FISCALI
In tema di accertamenti fiscali, la Corte di Cassazione, dopo un periodo di contrastanti interpretazioni, finalmente è giunta a stabilire consolidati (almeno sino ad ora) principi di diritto.
A) La Corte di Cassazione, Sez. trib., con l’importante sentenza n. 10960 del 14 maggio 2007, infatti, ha stabilito che: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riferimento all’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. D), DPR 29 settembre 1973 n. 600, i valori percentuali medi del settore rappresentano non tanto un “fatto noto” storicamente verificato, sul quale è possibile fondare una presunzione di reddito ex art. 2727 cod. civ., ma, piuttosto, il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa soltanto una regola di esperienza per cui tali valori in nessun caso possono giustificare presunzioni qualificabili come “gravi e precise”, indicando, diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica impresa interessata, solo in via ipotetica la redditività dell’attività dell’impresa medesima, cosicchè, laddove non confortati da altre risultanze, si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39 citato (Cass. 8535/98 e 18038/05)”.
B) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con varie sentenze ha stabilito che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, allorquando ricorrano i presupposti sia dell’accertamento analitico che di quello induttivo, l’Amministrazione finanziaria può legittimamente utilizzare sia l’uno che l’altro metodo.
Di conseguenza, qualora, pur in presenza delle condizioni suscettibili di legittimare l’adozione di un accertamento induttivo a termini dell’art. 39, comma 2, DPR n. 600/73, la rettifica sia stata operata con metodo analitico, a mente del comma primo della medesima disposizione, il contribuente non ha titolo per lamentare l’emissione nei suoi confronti di un accertamento analitico, invece che di un accertamento induttivo e sintetico, posto che l’eventuale adozione di questo implicherebbe per lui garanzie minori di quelle correlabili all’emissione di quello.
In tal senso, Corte di Cassazione, con le seguenti sentenze:
– n. 10960 del 14 maggio 2007;
– n. 17626 del 27 giungo 2008;
– n. 14879 del 05 giugno 2008;
– n. 20857 del 05 ottobre 2007;
– n. 27068 del 18 dicembre 2006;
– n. 20837/2005;
– n. 6945/2001;
– n. 5557/2000.
C) Infine, è bene precisare che tutti i suesposti principi di diritto (lettera A e B) sono stati, ultimamente confermati dalla Corte di Cassazione, Sezione Quinta Civile, con la sentenza n. 18020/09 del 12 maggio 2009, depositata il 06 agosto 2009.
D) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 21147 del 26 giugno 2009, depositata il 02 ottobre 2009, ha precisato che l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidato alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, sempre che essa raggiunga livelli di irragionevolezza tali da privare, appunto, la documentazione contabile di ogni attendibilità.
E) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con l’ordinanza n. 19079 del 02 luglio 2009, depositata il 01 settembre 2009, ha stabilito che il giudice tributario qualora ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, scevra da qualsivoglia potere equitativo, eventualmente ricondurla alla corretta misura, sempre entro i limiti posti dalle domande di parte.
F) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con l’ordinanza n. 13915 del 06 maggio 2009, depositata il 15 giugno 2009, ha stabilito che è illegittimo l’accertamento induttivo nei confronti del contribuente se i ricavi d’impresa da questo dichiarati sono coerenti con gli studi di settore, introdotti dalla Legge n. 146/1998.
Ciò in quanto gli studi di settore vanno preferiti ai parametri di cui all’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973, attesa la natura più raffinata degli studi, desumibile dalla normativa che li ha introdotti.
G) La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 244 del 16 luglio 2009, depositata il 24 luglio 2009, ha dichiarato manifestamente inammissibile la censura di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione (relativi al diritto di difesa ed al giusto processo) dell’art. 12, comma 7, della Legge n. 212/2000 nella parte in cui non prevede la nullità dell’atto di accertamento, qualora il medesimo venga notificato prima dello spirare del termine di 60 giorni che deve trascorrere dalla data di consegna del processo verbale di chiusura delle operazioni e la notifica dello stesso atto di accertamento.
In definitiva, l’ordinanza in questione, sia pure nel contesto di una declaratoria di manifesta inammissibilità, assume l’interpretazione della norma dell’art. 12 cit., secondo cui l’omessa attivazione del contraddittorio, in assenza di espressa motivazione sull’urgenza, può determinare la nullità dell’avviso di accertamento.
Tale orientamento si raccorda agli orientamenti più recenti della Corte di Cassazione (sentenza n. 17229 del 28 luglio 2006 e sentenza n. 4622 del 26 febbraio 2009) nonché della Corte di Giustizia UE (causa C-349/07 del 18 dicembre 2008, causa C-274/99 del 06 marzo 2001 e causa C-260/89 del 18 giugno 1991) sulla centralità del contraddittorio procedimentale tributario.
A questo proposito, l’Agenzia delle Entrate, con la nota del 14 ottobre 2009, ha sensibilizzato gli uffici affinchè, in sede di pianificazione delle attività di verifica, tengano in debito conto l’esigenza di rispettare la citata previsione dello Statuto.
H) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 16874 del 02 aprile 2009, depositata il 21 luglio 2009, ha affermato che le violazioni commesse dall’Amministrazione finanziaria durante l’istruttoria tributaria possono comportare la nullità dell’avviso di accertamento solo ove sia accertato che ne è conseguito un congruo e concreto pregiudizio per le ragioni private del contribuente.
I) Inoltre, la Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 17362 del 01 aprile 2009, depositata il 24 luglio 2009, ha stabilito che l’avviso di accertamento ai fini IRPEF, che contenga solo l’indicazione dell’aliquota minima e massima applicata, viola il principio di precisione e chiarezza delle “indicazioni”, che è alla base dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 ed incorre, pertanto, nella sanzione di nullità disposta dal terzo comma dello stesso articolo, solo se contempla un richiamo insoddisfacente alla tabella delle aliquote allegata ad un testo normativo di non immediata applicazione, o qualora sia integrata da altra norma o modificata da successiva norma a sua volta non richiamata nell’avviso.
L) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 1058 del 23 novembre 2007, depositata il 18 gennaio 2008, ha stabilito che l’incasso da parte di una persona fisica di tangenti destinate ad un partito politico configura il presupposto per la tassazione di un provento illecito classificabile fra i redditi diversi e, precisamente, fra quelli derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.
Risulta a tal fine irrilevante la circostanza che le somme richiamate non siano trattenute dal soggetto nel proprio esclusivo interesse, ma siano destinate ad essere trasmesse interamente al destinatario designato in funzione dei suddetti accordi.
M) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 21973 dell’11 giugno 2009, depositata il 16 ottobre 2009, ha stabilito che in tema di imposte sui redditi l’accertamento con adesione, definito a mezzo di autocertificazione, non è modificabile sulla base di fatti di rilevanza penale non conosciuti al momento della proposta dell’ufficio.
Invero, l’art. 2, comma 6, del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 (in vigore dall’01 agosto 1997) comporta l’applicabilità della nuova disciplina anche alle dichiarazioni presentate “entro il 30 settembre 1994”, con la conseguenza che non sono più operative le cause di esclusione o di inammissibilità richiamate dall’art. 3 del D.L. n. 564/1994 come convertito dalla Legge n. 656 attraverso l’art. 2-bis, abrogato.
N) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 13510/2009 ha stabilito che è nullo l’accertamento notificato alla persona non più convivente.
O) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 24509 depositata il 20 novembre 2009, ha precisato che se il saldo di cassa di una società è negativo e, ciò nonostante, vengono effettuati pagamenti in contanti, è legittimo presumere che questi pagamenti siano stati fatti con ricavi non dichiarati.
CASO N. 37
CESSIONE DI AZIENDA
A) La Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 24913 del 10/10/2008, ha stabilito che:
a) “si ha cessione d’azienda, soggetta ad imposta di registro proporzionale (e non ad IVA) quando le parti non hanno inteso trasferire una semplice somma di beni, ma un complesso organico unitariamente considerato, dotato di una potenzialità tale da farne emergere ex ante la complessiva attitudine anche solo potenziale all’esercizio di impresa (Cass., trib., 11 giugno 2007 n. 13580; 30 gennaio 2007 n. 1913; 30 maggio 2005 n. 11457; 20 giugno 2002 n. 8973), ovverosia (Cass., trib., 19 novembre 2007 n. 23857) quando “i beni strumentali ceduti siano atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di una impresa (anche se non si richiede che tale esercizio sia attuale, essendo sufficiente l’attitudine potenziale all’utilizzo per un’attività d’impresa, né che la cessione comprenda anche le relazioni finanziarie, commerciali e personali)”;
b) “ai fini fiscali”, per la qualificazione di un atto di trasferimento come cessione di azienda non rileva la circostanza che i singoli beni aziendali siano stati ceduti globalmente o con più atti separati, né la circostanza che il cedente sia un soggetto non munito di autorizzazioni all’esercizio dell’attività dell’azienda, e nemmeno la circostanza che al momento della cessione l’azienda fosse concretamente esercitata, perché rileva unicamente la causa reale del negozio e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti (Cass., trib., 11 giugno 2007 n. 13580): detta causa e regolamentazione, come ovvio, possono essere desunti esclusivamente dalla lettura delle conferenti disposizioni negoziali intervenute tra i paciscenti”.
Infine, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 685 del 14 gennaio 2009, ha ulteriormente precisato che:
“l’esistenza di un progetto non è di per sé sola decisiva ai fini dell’individuazione della destinazione e della consistenza del complesso produttivo prima che tale progetto venga realizzato”. (vedi anche Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 22526/07 del 26 ottobre 2007).
B) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 12213 del 15 maggio 2008, ha stabilito che ai fini dell’imposta di registro l’atto con il quale uno dei soci receda da una società in nome collettivo composta da due soli soci, dando quietanza dell’avvenuta liquidazione della quota, e l’altro socio contestualmente dichiari di non voler ricostituire la società, ma di voler proseguire in proprio, quale imprenditore individuale, l’attività di impresa rientra nell’ipotesi di cessione di azienda e, pertanto, sconta l’aliquota ordinaria del 3% di cui all’art. 2, parte prima, della tariffa allegata al DPR 26 aprile 1986 n. 131.
CASO N. 38
DEPOSITO RICORSO PER CASSAZIONE
A) L’originale del ricorso notificato deve essere depositato nel termine perentorio di 20 giorni dall’ultima notificazione (cfr Cass., sentenze n. 26222 dell’01 dicembre 2005; n. 20183 del 12 ottobre 2004; Cass. Sezioni Unite, sentenza n. 9005 del 16 aprile 2009).
Inoltre, deve sempre essere depositata, a pena di inammissibilità, la copia autentica della sentenza impugnata (cfr. Cassazione, sentenze n. 7027 del 14 marzo 2008; n. 1240 del 19 gennaio 2007; Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14110 del 20 giugno 2006).
B) Inoltre, è bene precisare che la Corte di Cassazione ha più volte precisato che quando sono sollevate questioni relative agli “errores in procedendo” la Corte stessa ha il potere-dovere di esaminare direttamente e sindacare gli atti processuali rilevanti ai fini della decisione (in tal senso, sentenze n. 16453 del 09 aprile 2008; depositata il 18 giugno 2008; n. 2526/2002; n. 10410/2002; n. 15859/2002).
C) Infine, ultimamente, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 207 del 09 luglio 2009, ha stabilito che: “è costituzionalmente” illegittimo l’art. 391-bis, comma 1, c.p.c. riguardante la correzione degli errori materiali e la revocazione delle sentenze, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., relativi, rispettivamente, al diritto di uguaglianza e di difesa nella parte in cui non prevede la esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto per le ordinanze pronunciate dalla Corte di Cassazione in camera di consiglio che dichiarino l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto”.
CASO N. 39
PROBLEMATICHE PENALI E FISCALI SULLE
OPERAZIONI INESISTENTI
La Corte di Cassazione, Sezione Penale, nel corso degli anni ha affrontato e risolto molte questioni penali, non sempre con interpretazioni uniformi.
A) In tema di reati finanziari e tributari, il delitto di omessa dichiarazione ai fini IVA è configurabile anche nel caso in cui siano state emesse fatture per operazioni inesistenti, in quanto, secondo la normativa tributaria, l’IVA è dovuta anche per tali fatture, indipendentemente dal loro incasso effettivo, con conseguente obbligo di presentare la relativa dichiarazione (Cass., Sez. III Penale, sentenza n. 39177 del 24 settembre 2008, depositata il 20 ottobre 2008).
Di conseguenza, è stata disattesa la tesi difensiva secondo cui, non essendo dovuta l’IVA su tali fatture, non risultava provato il superamento della soglia di punibilità.
Sino ad oggi, non si ravvisano precedenti in materia.
In ordine, invece, al rapporto della previsione di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 con la contravvenzione di cui all’art. 1, comma 1, Legge n. 516/1982, oggetto di abolitio criminis, si rinvia alla sentenza n. 217374 del 15 gennaio 2001 della Corte di Cassazione, Sezioni Unite.
B) In tema di reati tributari e finanziari, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile nel caso di frazionamento in successive dichiarazioni annuali delle quote di ammortamento dell’importo di fatture per l’acquisto (inesistente) di beni strumentali ed è integrato da ogni dichiarazione nella quale vengono indicati i corrispondenti elementi passivi fittizi in detrazione dei redditi (Cass., Sez. III Penale, sentenza n. 39176 del 24 settembre 2008, depositata il 20 ottobre 2008).
Invece, in senso contrario, ma con riferimento alla previsione dell’art. 4 Legge n. 516/1982, si è precisato che l’ammortamento frazionato di fatture corrispondenti a prestazioni di servizi fittizie ed inesistenti, in esercizi successivi a quello in cui tali fatture sono state inserite nella contabilità aziendale, non costituisce autonomo atto di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti punibile ai sensi dell’art. 4, n. 5, del D.L. n. 429/1982, convertito con modificazioni dalla Legge n. 516/1982, ma un mero effetto del reato istantaneo consumatosi con il primo recepimento delle fatture nella contabilità aziendale (Cass., Sez. III Penale, sentenza n. 188168 del 10 aprile 1991).
Infine, circa il rapporto tra la vecchia fattispecie di cui all’art. 4. lett. d), e quella di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, si citano:
– Cass., Sez. unite, sentenza del 25 ottobre 2000;
– Sez. II, sentenza del 06 giugno 2003 n. 225856;
– Sez. III, sentenza n. 216994 del 31 maggio 2000.
C) In tema di reati tributari, non sussiste continuità normativa tra il reato di utilizzazione di costi fittizi in dichiarazione (prima previsto dall’art. 4, lett. f), del decreto legge 10 luglio 1982 n. 516, convertito, con modifiche, nella Legge 7 agosto 1982 n. 516) e la nuova fattispecie di dichiarazione fraudolenta (oggi prevista dal’art. 2 D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000) ove le fatture per operazioni inesistenti siano utilizzate in sede di dichiarazione annuale IVA in quanto l’abrogata fattispecie puniva unicamente le condotte aventi ad oggetto la dichiarazione dei redditi e non anche la dichiarazione IVA (Cass., Sez. III Penale, sentenza n. 1996 del 25 ottobre 2007, depositata il 15 gennaio 2008).
In senso diametralmente opposto, invece, si era pronunciata la stessa Sez. III penale con le sentenze n. 15120 dell’08 marzo 2002 e del 04 febbraio 2002, Pisciotta).
In definitiva, sull’argomento, si ripropone un contrasto interpretativo, latente ma mai completamente sopito, interno alla Terza Sezione Penale della Suprema Corte.
D) In materia di emissione di fatture per operazioni inesistenti, la fattispecie prevista dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000 e, in precedenza, dall’art. 4, lett. d), del D.L. n. 429/1982, convertito dalla Legge n. 516/1982, si configura come reato di pericolo astratto, in quanto mira a tutelare l’interesse dello Stato a non vedere ostacolata la propria funzione di accertamento fiscale, sicchè è stata anticipata dal legislatore, nella configurazione della predetta fattispecie criminosa, la soglia dell’intervento punitivo rispetto al momento della dichiarazione.
La configurabilità del reato è, pertanto, svincolata dal conseguimento di una effettiva evasione, venendo puniti comportamenti propedeutici connotati da potenzialità lesiva del citato interesse erariale.
Di conseguenza, la sussistenza dell’elemento psicologico del reato deve essere esclusa solo qualora risulti che l’azione sia stata posta in essere per fini esclusivamente extratributari (ultimamente, Cassazione, Sez. III penale, sentenza n. 28654 del 04 giugno 2009, depositata il 14 luglio 2009).
E) In materia tributaria, grava sul fisco, che ritenga l’operazione inesistente, l’onere di provare che questa non sia stata mai posta in essere. Tuttavia, qualora il fisco fornisca validi elementi, passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 18018 del 06 agosto 2009; sentenze nn. 15395/2008 e 15299/2008).
In ogni caso, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17377 del 24 luglio 2009, ha ulteriormente precisato che “sul piano dell’onere della prova spetta all’ufficio che contesta la deduzione dimostrare che l’operazione cui essa si riferisce è soggettivamente inesistente, spetta invece al contribuente provare di non aver avuto consapevolezza della rilevata falsità, trattandosi di condizione necessaria al fine di ottenere la deduzione, in applicazione alla regola generale secondo cui, essendo il costo una voce che riduce il reddito imponibile, esso deve essere provato dal contribuente.
Tale prova non può essere validamente fornita dal privato soltanto dimostrando che la merce è stata effettivamente ricevuta e ne è stato versato il corrispettivo, trattandosi di circostanze non concludenti”.
Quest’ulteriore stretta interpretativa rende per il contribuente la prova veramente “diabolica” soprattutto con l’attuale processo tributario, dove sono ammesse solo prove documentali perché è vietata la testimonianza ed il giuramento.
Di conseguenza, se veramente si vogliono mettere le parti processuali (fisco e contribuente) sullo stesso piano è necessario ed urgente riformare il processo tributario, come ho previsto con il mio progetto di legge (www.studiotributariovillani.it).
F) Secondo la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5420/2009, in sede penale, le presunzioni fiscali non hanno alcuna rilevanza, con la conseguenza che il giudice non può applicare né presunzioni legali né qualsivoglia criterio di valutazione, ma deve essere l’accusa ad eseguire gli accertamenti del caso per provare la colpevolezza del contribuente.
G) Infine, ultimamente, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con le sentenze n. 17377 dell’11 giugno 2009, depositata il 24 luglio 2009, e con l’ordinanza n. 21317 del 06 ottobre 2009, ha ribadito che spetta all’ufficio finanziario che contesta la deduzione dimostrare che l’operazione a cui essa si riferisce è soggettivamente inesistente.
Spetta, invece, al contribuente provare di non avere avuto consapevolezza della rilevata falsità, trattandosi di condizione necessaria al fine di ottenere la deduzione, in applicazione della regola generale secondo cui, essendo il costo una voce che riduce il reddito imponibile, esso deve essere provato dal contribuente e tale prova si estende a tutte le condizioni richieste dalla legge ai fini del riconoscimento della deduzione.
H) L’Amministrazione finanziaria non può rettificare i costi derivanti da presunte fatture false se si limita ad indicare solo dei fatti, senza spiegare per quali ragioni da quei fatti si trarrebbero elementi forniti dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.
Quanto sopra è stato precisato dalla Corte di Cassazione con l’importante sentenza n. 17572, depositata il 29 luglio 2009, che rispetto al passato, ha fatto un deciso passo avanti.
I) La confisca per equivalente non può essere applicata ai reati tributari con modalità retroattive, sfruttando la sua apparente similitudine alle misure di sicurezza, quando invece si tratta di una sanzione penale.
La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 301/2009 del 20 novembre 2009, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione costituzionale posta dal Gip di Napoli sugli articoli 200 e 322-ter del codice penale, come modificato dalla Finanziaria per il 2008.
L) La Corte di Cassazione, Sez. penale, con la sentenza n. 45643 del 26 novembre 2009, ha precisato che l’incriminazione per riciclaggio di capitali prescinde dal reato dal quale provengono i soldi e si può fondare su qualsiasi condotta tendente a ripulire il denaro sporco, fra cui un’evasione fiscale e la sola appartenenza ad un’organizzazione criminale.
CASO N. 40
STATUTO DEI DIRITTI DEL CONTRIBUENTE
– PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO –
A) La valenza ed efficacia delle norme dello Statuto dei diritti del contribuente (Legge n. 212 del 27 luglio 2000 e D.Lgs. n. 32 del 26 gennaio 2001) hanno determinato un insanabile contrasto persino tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale.
Infatti, mentre la Corte Costituzionale ha sempre precisato che le disposizioni della Legge n. 212 cit. non costituiscono parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale (ordinanze n. 185 del 26 giungo 2009, n. 58/2009, n. 180/2007 e n. 216/2004), la Corte di Cassazione, invece, con uno sforzo interpretativo largamente condivisibile, ha sempre ritenuto le norme dello Statuto regole di rango costituzionale (sentenze n. 10982/2009, depositata il 13 maggio 2009, n. 21513/2006; n. 17156/2002; n. 16843 del 2008).
Infatti, “il predetto valore ermeneutico dei principi statutari si fonda su un duplice rilievo.
In primo luogo, su quello secondo cui l’interpretazione conforme a statuto si risolve, in definitiva, nell’interpretazione conforme alle norme costituzionali richiamate, che lo Statuto stesso dichiara esplicitamente di attuare nell’ordinamento tributario.
In secondo luogo, e conseguentemente, su quello secondo cui alcuni dei principi posti dalla Legge n. 212 del 2000 proprio in quanto esplicitazioni generali, nella materia tributaria, delle richiamate norme costituzionali devono ritenersi “immanenti” nell’ordinamento stesso già prima dell’entrata in vigore dello Statuto e, quindi, vincolanti l’interprete in forza del fondamentale canone ermeneutico della “interpretazione adeguatrice” a Costituzione: cioè, del dovere dell’interprete di preferire, nel dubbio, il significato e la portata della disposizione interpretata conformi a Costituzione” (Cassazione, sentenza n. 17576 del 10 dicembre 2002).
Occorre un preciso e definitivo intervento della Corte Costituzionale sulla portata complessiva dello Statuto, volto a chiarire soprattutto il punto dell’interpretazione delle norme di questo come “norme di rango costituzionale”.
Solo la Corte, dunque, potrebbe dare conforto alla tesi della Corte di Cassazione circa questa nozione di principi costituzionali in senso ampio.
Scrive E. De Mita, in Il Sole 24Ore del 22 novembre 2009:
“Lo Statuto è pur sempre una legge ordinaria; il ragionamento della Corte Costituzionale, dovendo questa dichiarare la legittimità o meno di leggi nel rispetto della gerarchia delle fonti, è ben difficile che possa elevare formalmente lo Statuto al rango di norme costituzionali. Tutto dipenderà da come verranno sollevate le questioni”.
B) In tema di tutela dell’affidamento legittimo e della buona fede del contribuente, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con l’importante sentenza n. 10982 del 16 aprile 2009, depositata il 13 maggio 2009, ha stabilito il seguente principio di diritto:
“Inoltre va rilevato che il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino, reso esplicito in materia tributaria dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, (Statuto dei diritti del contribuente), trovando origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., espressamente richiamati dall’art. 1, medesimo statuto, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa e amministrativa.
La previsione dell’art. 10 dello statuto – a differenza di altre che presentano un contenuto innovativo rispetto alla legislazione preesistente – è dunque espressiva di principi generali, anche di rango costituzionale, immanenti nel diritto e nell’ordinamento tributario anche prima della legge, sicché essa vincola l’interprete, in forza del canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice a Costituzione, risultando così applicabile sia ai rapporti tributari sorti in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, sia ai rapporti fra contribuente ed ente impositore diverso dall’amministrazione finanziaria dello Stato, sia ad elementi dell’imposizione diversi da sanzioni e interessi, giacché i casi di tutela espressamente enunciati dal detto art. 10, comma 2 riguardano situazioni meramente esemplificative, legate a ipotesi maggiormente frequenti, ma non limitano la portata generale della regola, idonea a disciplinare una serie indeterminata di casi concreti (V. pure Cass. Sentenze n. 21513 del 06/10/2006, n. 17576 del 2002)”.
CASO N. 41
GIUDICATO ESTERNO
All’interno della Corte di Cassazione, in uno primo momento, si era formato un contrasto giurisprudenziale in ordine alla rilevabilità (e deducibilità) del giudicato esterno nel giudizio di legittimità e all’efficacia (e, in caso positivo, ai limiti di efficacia) del giudicato esterno in materia tributaria, nonostante le Sezioni Unite si fossero pronunciate sull’argomento con la sentenza n. 226/2001.
A) In un primo momento, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16376/2003, aveva ritenuto rilevabile nel giudizio di legittimità il giudicato esterno anche qualora esso “risulti da atti che siano stati prodotti per la prima volta in Cassazione, purchè il documento nuovo costituito dalla sentenza passata in giudicato si sia formato dopo l’esaurimento dei gradi di merito e venga prodotto con la notifica del ricorso per Cassazione, non operando in tal caso la preclusione di cui all’art. 372 c.p.c., che vieta nel giudizio di legittimità il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi, atteso che altrimenti l’eventuale contrasto tra le due pronunzie potrebbe sostanziare i presupposti di un vizio revocatorio, causando un inconveniente incompatibile con il principio di rango costituzionale di economicità di giudizi”.
Nella stessa prospettiva si era collocata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19772/2003.
B) Più, di recente, invece, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con la sentenza n. 363/2006, ha ritenuto che sia “denunciabile con ricorso per Cassazione il contrasto rispetto ad un giudicato esterno intervenuto successivamente alla emanazione della sentenza impugnata al pari di quanto avviene per lo ius superveniens”; così, ha proposto una “lettura elastica” dell’art. 372 c.p.c., “in quanto ritenere preclusa l’acquisizione del documento comprovante la formazione del giudicato esterno successivamente alla conclusione del giudizio di merito comporterebbe il grave inconveniente di consentire una pronuncia definitiva da parte della Corte, che potrebbe porsi in insanabile contrasto con il precedente, esponendo così la sentenza di Cassazione al rischio di un vizio revocatorio”.
C) A questo punto, proprio per evitare il perpetuarsi del succitato contrasto interpretativo, è intervenuta la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 13916 del 16 giugno 2006, ha stabilito che:
– “deve essere, quindi affermata la deducibilità e la rilevabilità nel giudizio di legittimità del giudicato esterno che si sia formato successivamente alla conclusione del giudizio di merito”;
– “ciò esclude, peraltro, che il giudicato relativo ad un singolo periodo d’imposta sia idoneo a “fare stato” per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica: non ad ogni statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì, come conviene un’autorevole dottrina, solo a quelle che siano relative a “qualificazioni giuridiche” o ad altri eventuali “elementi preliminari” rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo”.
Ai suddetti principi si è poi adeguata la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con le sentenze n. 2438 del 05 febbraio 2007 e n. 6753 del 21 marzo 2007.
La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 11084 del 12 dicembre 2007, depositata il 07 maggio 2008, ha stabilito che la sentenza che riconosca la deducibilità dal reddito di un anno di una componente passiva assume il valore di “giudicato esterno”, vincolante anche per altre annualità, solo quando riguardi un’unica componente passiva la cui deduzione è frazionata in più anni. Non produce, invece, tale effetto nei confronti di poste che si rinnovano di anno in anno su presupposti di fatto diversi.
D) La Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 15158 del 09 gennaio 2009, depositata il 26 giugno 2009, ha precisato che il giudicato esterno in tema di INVIM vale anche sulla pertinenzialità del terreno: condizione fondamentale è che le parti e l’oggetto dei due giudizi siano gli stessi.
E) Infine, ultimamente, in contrasto con i suesposti principi della Corte di Cassazione, la Corte di Giustizia UE, nella causa C-2/08 (OLIMPICLUB), con la sentenza del 03 settembre 2009, ha stabilito che una interpretazione estensiva del giudicato esterno “avrebbe dunque la conseguenza che, laddove la decisione giurisdizionale divenuta definitiva sia fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie relative a pratiche abusive in materia di IVA in contrasto con il diritto comunitario, la non corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia possibile correggere tale erronea interpretazione”.
Tali effetti “non possono essere ragionevolmente giustificati dal principio della certezza del diritto e devono essere dunque considerati in contrasto con il principio di effettività”.
In definitiva, secondo i giudici comunitari, il c.d. giudicato esterno sopravvive soltanto quando non sia in conflitto con disposizioni tutelate a livello comunitario.
Alla luce di quanto sopra esposto, si possono trarre le seguenti considerazioni:
1) è ormai consolidato (Corte Costituzionale 168/1991) che le sentenze pregiudiziali emesse dalla Corte di Giustizia UE acquistano valore di precedente vincolante per lo Stato membro ed incidono nel tessuto legislativo interno come fonte di diritto comunitario (Cassazione, sentenza n. 25374 del 17 ottobre 2008);
2) il suddetto intervento della Corte di Giustizia UE, colpisce soltanto il c.d. “giudicato esterno”, mentre non scardina assolutamente il c.d. “giudicato interno”, cioè la definitività della decisione non più impugnabile;
3) l’intervento comunitario, logicamente, è utile anche a favore del contribuente, in tutti i casi in cui la pretesa del fisco sia in contrasto con la norma comunitaria.
CASO N. 42
TESTIMONIANZA ED ATTO NOTORIO
A) L’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546 del 31 dicembre 1992 testualmente dispone “Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” nel processo tributario.
A tal proposito, però, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18 del 21 gennaio 2000 (in G.U. n. 4 del 26 gennaio 2000), pur dichiarando non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 7, commi 1 e 4 del D.Lgs. n. 546/1992 sollevate in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione, ha, però, opportunamente precisato che: “Ciò non vuol dire, peraltro, che il contribuente non possa, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale.
Allorchè ciò avvenga, il giudice tributario ove non ritenga che l’accertamento sia adeguatamente sorretto da altri mezzi di prova, anche a prescindere dunque dalle dichiarazioni di terzi potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità l’attività istruttoria svolta dall’ufficio.
E non è dubbio che, in presenza di una specifica richiesta di parte, le ragioni del mancato esercizio di tale potere dovere restino soggette al generale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione proprio delle decisioni giurisdizionali.
B) Sulla validità dell’atto notorio nel processo tributario, attualmente, sussiste un contrasto giurisprudenziale all’interno della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione.
Infatti, con la sentenza n. 16348 dell’08 aprile 2008, depositata il 17 giugno 2008, la Corte ha precisato che: “sul piano generale, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, così come l’autocertificazione in genere, ha attitudine certificativa e probatoria esclusivamente in alcune procedure amministrative, essendo viceversa priva di qualsiasi efficacia in sede giurisdizionale. Più specificamente, nel contenzioso tributario, l’attribuzione di efficacia probatoria alle dichiarazioni sostitutive di notorietà trova ostacolo invalicabile nella previsione dell’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992 (nuovo processo tributario), eludendo il divieto di giuramento, oltre che di prova testimoniale, sancito dalla richiamata disposizione, come mezzo di prova, non solo equipollente a quello vietato, ma anche costituito al di fuori del processo (Cass., 15 dicembre 2007, n. 703)”.
Tale passaggio costituisce un punto assai critico.
E’ ormai un dato acquisito, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza internazionale, che il diritto alla prova, come proiezione strumentale del diritto di azione (cioè di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi) non può tollerare limitazioni che rendano impossibile o irragionevolmente difficile la soddisfazione delle proprie ragioni (in tal senso, correttamente ed opportunamente, Corte di Cassazione europea dei diritti dell’Uomo, 23 novembre 2006, n. 73053/01, causa “Jussila c. Finlandia”).
C) Invece, la Corte di Cassazione, Sezione Trib., con la sentenza n. 11221 del 28 febbraio 2007, depositato il 16 maggio 2007), contrariamente a quanto sopraesposto, ha precisato che: “Si rileva in proposito che, nel processo tributario, come è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso a carico del contribuente, fermo il divieto di ammissione della “prova testimoniale” posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, art. 7 con il valore probatorio “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli il fondamento della decisione” (Corte Costituzionale, sent. N. 18 del 2000), va del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale beninteso, con il medesimo valore probatorio, dando così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa (Cass, sentenza n. 4269 del 25/03/2002)”.
Il suddetto principio, inoltre, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 9958/08 del 15 febbraio 2008, depositata il 16 aprile 2008.
D) E’ auspicabile, in proposito, non solo che sull’argomento si pronuncino le Sezioni Unite ma, soprattutto, che “de iure condendo” intervenga il legislatore, consentendo nel processo tributario la prova per testimoni ed il giuramento per realizzare veramente il “giusto processo” (art. 111 della Costituzione).
Sul punto, è importante riportare quanto opportunamente osservato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 23 febbraio 2009 (G.U. n. 9 del 04/03/2009), che ha precisato: “Tale premessa non tiene conto, infatti, della circostanza che la citata legge costituzionale n. 2 del 1999 nell’introdurre nel corpo dell’art. 111 Cost. un nuovo secondo comma, per il quale ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità….” si è limitata, sul punto, ad esplicitare nel testo della Costituzione principi che la giurisprudenza di questa Corte aveva già tratto dagli artt. 3 e 24 Cost. e che aveva posto a fondamento del “giusto processo” (ex multis, sentenze n. 241 del 1999; n. 290 del 1998; n. 432 del 1995; n. 137 del 1984). Pertanto, con riferimento ai suddetti principi, l’art. 111, secondo comma, Cost. non ha carattere innovativo e la sua nuova formulazione non vale, diversamente da quanto ritenuto dal rimettente, a fornire un argomento idoneo a superare la ratio decidendi dell’indicata sentenza di questa Corte n. 177 del 1992”.
A tutt’oggi, però, secondo me, i suddetti validi principi non sono realizzati nell’attuale processo tributario dove è evidente una diversità processuale tra fisco e contribuente (rinvio al mio progetto di legge di riforma del processo tributario in www.studiotributariovillani.it).
La necessità di un urgente riordino della giustizia tributaria è stata rilevata dall’ANTI (Associazione Nazionale Tributaristi Italiani) al trentesimo congresso nazionale che si è svolto a Trieste il 06 e 07 novembre 2009.
Infatti, non bisogna dimenticare che, nel settore tributario, sussistono molte presunzioni legali con inversione dell’onere della prova oppure regimi agevolativi dove l’onere della prova è rimesso sempre al contribuente (da ultimo, Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 20094 dell’08 luglio 2009, depositata il 18 settembre 2009).
E) Infine, a puro titolo informativo, è utile rammentare che nel processo tributario non è ammessa una generica valutazione equitativa, come precisato dalla Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 19079 dell’01 settembre 2009.
F) La Corte di Cassazione con la sentenza n. 10678 dell’11 maggio 2009 ha stabilito che è nulla la sentenza della Commissione tributaria che, a fronte della presenza di un’istanza di pubblica udienza, tratta la causa in camera di consiglio.
CASO N. 43
EROGAZIONE DI SOMME A TITOLO RISARCITORIO
A) La Corte di Cassazione ha più volte affermato che l’art. 6, comma 2, del TUIR DPR n. 917 del 22 dicembre 1986 nella parte in cui dispone che “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli (….) perduti”, comporta che le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio costituiscono reddito imponibile solo nei limiti in cui abbiano la funzione di reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi” (Cassazione, Sez. trib., sentenze del 15 luglio 2008 n. 19356; del 03 settembre 2002 n. 12798; del 28 ottobre 2000 n. 14241; dell’11 ottobre 1997 n. 9893; ultimamente, Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 10972 del 24 marzo 2009, depositata il 13 maggio 2009).
In definitiva, è tassabile solo il risarcimento danni da “lucro cessante” e non da “danno emergente”.
L’applicazione in concreto della suddetta disposizione di legge comporta, quindi, che la questione relativa alla imponibilità delle somme riscosse dal lavoratore a titolo risarcitorio non deve mai prescindere dall’accertamento, in concreto e “per tabulas”, in ordine alla natura effettiva del pregiudizio che l’importo ricevuto ha la funzione di indennizzare, dovendo sempre il giudicante verificare se la dazione di tali somme trovi o meno la sua causa nella funzione di riparare la perdita di un reddito, potendo soltanto in caso di risposta positiva e sempre che non si tratti di danni da invalidità permanente o da morte affermarsi la tassazione della relativa indennità “da lucro cessante”.
In ogni caso, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 10382 del 13 febbraio 2009, depositata il 06 maggio 2009, ha precisato che, nella motivazione della sentenza, si deve sempre descrivere il percorso di formazione del giudizio secondo il quale le situazioni rappresentate nei documenti esaminati sono tali da giustificare il giudizio statico finale.
B) Inoltre, la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la sentenza n. 20631 del 23 aprile 2009, depositata il 25 settembre 2009, ha stabilito i seguenti principi di diritto:
“Il motivo è infondato.
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte il fisco quando ritiene che le imposte non gli siano state esattamente versate emette avviso di accertamento a carico del lavoratore subordinato, e gli contesta la mancata inclusione nella denuncia annuale di una componente di reddito tassabile, anche quando la stessa sia soggetta alla ritenuta di acconto prescritta dall’art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 ed il datore di lavoro abbia omesso di effettuare e versare tale ritenuta, non influendo la sostituzione di imposta sulla posizione e gli obblighi del lavoratore sostituito (Cass. 26 maggio 2003 n. 8280).
Del pari infondato é il secondo motivo di ricorso con il quale viene dedotto la non tassabilità dell’indennizzo corrisposto al ricorrente trasferito, per compensarlo dei maggiori costi locativi.
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte il suddetto indennizzo è sottoposto a tassazione essendo esonerate dalla tassabilità esclusivamente il recupero delle spese di viaggio e trasporto (Cass. 38 febbraio 2000 n. 2212, 3 marzo 2000 n. 2611, 21 marzo 2000 n. 3330 nonché la sopra citata sentenza di questa Corte).
Deve invece essere accolto il terzo motivo di ricorso, con il quale viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 55, ultimo comma del D.P.R. 29.9.1973 n. 600, a seguito delle modifiche apportate dal decreto legislativo n. 472 del 1997, che impone al giudice tributario di valutare la sussistenza nel caso concreto quanto meno della colpa a carico del soggetto interessato, e che io stesso non sia punibile qualora abbia agito in buona fede, o abbia errato per l’incertezza obiettiva dell’ordinamento.
Infatti come stabilito da questa Corte:”In terna di sanzioni amministrative per le violazioni delle norme tributarie, Part. 26, comma primo, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, ha sostituito le soprattasse (e le pene pecuniarie) previste dalla normativa previgente con sanzioni pecuniarie di uguale importo,. così che alle soprattasse, come (per il caso di specie) quella prevista in materia di IVA dall’art. 44 del DPR 26 ottobre 1972, ne 633, è applicabile, anche per rapporti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, il nuovo regime delle sanzioni introdotto dallo stesso d.lgs. n. 472 del 1997, che, in particolare, all’art. 5, richiede non più la semplice volontarietà dell’evento, ma pure il dolo, o, quantomeno, la colpa dell’agente. Da ciò consegue che il giudice di merito ben può valutare la reale attribuibilità al contribuente dell’omesso pagamento dell’imposta, dando conto in modo adeguato del proprio convincimento” (Sez. 5, Sentenza n. 1328 del 22/01/2007 (Rv. 596517).
La Commissione Tributaria Regionale di Milano non ha invece operato alcuna valutazione al riguardo,pur essendo tenuta a farlo dal momento che nel caso di specie era stata contestata la legittimità delle sanzioni irrogate, essendo retroattivamente applicabile in base al disposto dell’art. 25 del decreto legislativo n. 472/1997 la normativa citata, la cui sussistenza dei presupposti dovrà essere valutata dalla Commissione Tributaria della Lombardia.
C) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 20631 del 23 aprile 2009, depositata il 25 settembre 2009, ha stabilito che l’indennizzo per il canone di locazione corrisposto al lavoratore trasferito è sottoposto a tassazione, essendo esonerato dalla tassabilità esclusivamente il recupero delle spese di viaggio e di trasporto.
Tale componente di reddito è tassabile anche quando sia soggetta alla ritenuta di acconto e il datore di lavoro abbia omesso di effettuare e versare tale ritenuta, non influendo la sostituzione di imposta sulla posizione e sugli obblighi del lavoratore sostituito.
CASO N. 44
IMPUGNAZIONE DELLE DECISIONI DELLA
COMMISSIONE TRIBUTARIA CENTRALE
Un particolare problema riguarda i limiti dell’impugnazione delle decisioni della Commissione Tributaria Centrale che, seppure abolita sin dall’01 aprile 1996, continua ancora oggi ad operare, seppure con le sezioni decentrate regionali dal 2009.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, le decisioni della Commissione Tributaria Centrale sono impugnabili mediante ricorso per Cassazione soltanto ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, che è rimedio limitato ai vizi di violazione di legge, con la conseguenza che il vizio di motivazione è in tale sede denunziabile soltanto nei casi in cui si deduca la mancanza assoluta di motivazione ovvero un vizio di contraddittorietà della stessa così grave da non consentire di individuare le effettive ragioni poste dal giudice a base della decisione impugnata (Cassazione, Sez. trib., sentenza del 24 novembre 2006 n. 24985; n. 26426 del 2008; ultimamente, sentenza n. 10972 del 24 marzo 2009, depositata il 13 maggio 2009).
CASO N. 45
NOTIFICHE A PERSONE GIURIDICHE
A) La Corte di Cassazione, dopo un iniziale periodo di contrasto giurisprudenziale (Cass., sentenza n. 12510 del 05 dicembre 1995), ha stabilito che anche in base al vecchio testo dell’art. 145 c.p.c. gli atti tributari vanno notificati al contribuente persona giuridica presso la sede e, se ciò risulti impossibile, alla persona fisica che rappresenta l’ente, sempreché il domicilio del legale rappresentante indicato nell’atto da notificare sia compreso nel Comune del domicilio fiscale (Cassazione, sentenze n. 3140 del 25 marzo 1998; n. 7268 del 17 maggio 2002; n. 7655 del 31 marzo 2006; n. 14664 del 23 giugno 2006; n. 15849 del 12 luglio 2006; ultimamente, Cass., Sez. trib., sentenza n. 15856 del 31 marzo 2009, depositata il 07 luglio 2009).
B) A tal proposito, occorre precisare che dal 1° marzo 2006 vige il nuovo testo dell’art. 145 c.p.c., in base al quale l’agente della notificazione non è più tenuto ad eseguire la notifica prima nella sede dell’ente e dopo presso il suo legale rappresentante, ben potendo provvedere subito alla notifica presso quest’ultimo, sempre che nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e ne risulti specificata l’ubicazione, salvo, in caso di impossibile notificazione, l’eseguibilità della stessa alla persona fisica indicata nell’atto che rappresenta l’ente, anche a norma degli artt. 140 o 143 c.p.c..
C) In ogni, caso, in materia tributaria, il succitato art. 145 c.p.c. deve essere coordinato con gli artt. 60 DPR n. 600/1973 e 17 D.Lgs. n. 546/1992, che prevedono regimi privilegiati.
L’operatività delle suddette normative fiscali è da ritenersi legittima solo con riferimento ai casi di irreperibilità c.d. assoluta e non per i casi di irreperibilità meramente temporanea, per i quali ultimi devono essere osservate sempre le formalità di cui all’art. 140 c.p.c. (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 216/2009).
CASO N. 46
PRINCIPIO DI COMPETENZA
A) La giurisprudenza di legittimità sul tema dell’autonomia dei periodi d’imposta è inflessibile e si è espressa più volte.
Una recente sentenza (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 23987 dell’08 luglio 2008, depositata il 24 settembre 2008), ha ribadito il principio che la determinazione del reddito d’impresa soggiace sempre al principio inderogabile della competenza, quale regola di imputazione temporale dei componenti positivi e negativi, essendo sottratti al contribuente ogni arbitrio e facoltà circa l’individuazione del periodo di imposta e della relativa base imponibile alla quale essi componenti sono chiamati a concorrere.
B) Il consolidato orientamento giurisprudenziale di cui sopra è stato, in parte, attenuato dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. trib., (n. 6331 del 20 dicembre 2007, depositata il 10 marzo 2008), che ha ammesso il diritto del contribuente di chiedere il rimborso delle maggiori imposte, indebitamente corrisposte per la mancata costituzione di un costo nell’esercizio di competenza, entro il termine perentorio di 48 mesi decorrente, però, dalla definizione dell’accertamento relativo all’esercizio o dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta il mancato rispetto del principio della competenza.
In questo modo, si evita il rischio della doppia imposizione, anche se per il contribuente si allungano di molto i tempi per ottenere il legittimo rimborso.
CASO N . 47
PROCESSO TRIBUTARIO
– NOMINA DEL DIFENSORE –
CONCESSIONARIO DELLA RISCOSSIONE
A) La Corte di Cassazione, soprattutto dopo la pronuncia della Corte Costituzionale, del 13 giugno 2000 n. 189, ha più volte stabilito il principio secondo cui l’assistenza di un difensore tecnico non è, nel processo tributario, condizione di ammissibilità degli atti processuali ma è soltanto fonte di un dovere per il giudice adito di invitare le parti a munirsi di idonea assistenza, derivando l’inammissibilità solo dall’inottemperanza di detto ordine (Cass., Sez. trib., sentenza n. 2281 del 02 febbraio 2007).
B) Ultimamente, però, i giudici di legittimità hanno fatto un importante passo avanti, perché la Corte, con la sentenza n. 3051 dell’08 febbraio 2008, ha precisato che “la mancata emanazione dell’invito sopraindicato può essere rilevata solo dalla parte di cui sia stato leso il diritto ad essere adeguatamente assistita; non è nulla la sentenza che accolga il ricorso del contribuente senza rilevare il difetto di rappresentanza del contribuente e la parte pubblica non ha un interesse giuridicamente tutelato a rilevarne l’irregolarità che ad essa non nuoce”.
In sostanza, con il suddetto principio, viene privilegiato, sopra ogni altro interesse, quello del contribuente ad essere adeguatamente assistito, anche contro la sua iniziale determinazione e l’Amministrazione finanziaria non ha neppure interesse a proporre impugnazione, poiché si tratta di una mera irregolarità che non nuoce ad essa bensì, in teoria, soltanto allo stesso contribuente.
C) Infine, si precisa che anche l’evasore fiscale può godere del gratuito patrocinio.
Infatti, la Corte di Cassazione, IV Sez. Penale, con la sentenza n. 40589 del 12 giugno 2009, depositata il 20 ottobre 2009, considera legittima la concessione del beneficio del gratuito patrocinio a patto che il mancato pagamento delle imposte sia stato oggetto di un altro giudizio e non sia tra i reati per i quali si chiede invece l’assistenza a carico dello Stato.
D) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15241 del 09 giugno 2009, depositata il 30 giugno 2009, ha stabilito che l’avviso di accertamento tributario non è un atto processuale, ma soltanto un atto amministrativo, e su di esso non può quindi essere apposta la procura alle liti, che, ai sensi dell’art. 12, comma 3, del D. Lgs. N. 546/92, deve essere conferita a mezzo di atto pubblico, scrittura privata autenticata o in calce o a margine di un atto del processo.
Peraltro, il giudice tributario, pur in presenza della mancanza o invalidità della procura, non può dichiarare subito l’inammissibilità del ricorso, ma deve dapprima invitare la parte a regolarizzare la situazione, e, solo in caso di inottemperanza, pronunciare la relativa inammissibilità.
E) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 23382 del 23 settembre 2009, depositata il 04 novembre 2009, ha stabilito quanto segue:
“Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, la norma relativa alla rappresentanza processuale nel processo tributario, contenuta nell’art. 10 del D.Lgs. n. 546/96 secondo la quale la legittimazione processuale del concessionario del servizio di riscossione tributi sussiste soltanto se l’impugnazione concerne vizi propri della cartella o del procedimento esecutivo, mentre deve essere esclusa qualora i motivi di ricorso attengono alla debenza del tributo (Cassazione, sentenze n. 6450/2002, n. 3242/2007, n. 933/2009), è parzialmente derogata, in materia di tassa per l’occupazione di aree pubbliche anche mediante affissioni (D.Lgs. n. 507/93), dagli articoli 52, 32 e 25 del citato D.Lgs., in quanto il Comune impositore, ove lo ritenga “più economico e funzionale”, può affidare il servizio di accertamento e di riscossione della tassa ai soggetti iscritti in apposito Albo nazionale.
In tal caso, il concessionario del servizio “subentra al Comune in tutti i diritti ed obblighi inerenti alla gestione del servizio” e, conseguentemente, anche nelle contestazioni relative agli accertamenti da esso operati (Cassazione, sentenza n. 18250/2003) spettando il potere di accertamento al concessionario e non al Comune (Cassazione, sentenza n. 15079/2004)”.
CASO N. 48
IMPOSTA DI SUCCESSIONE
CONTI CORRENTI BANCARI O POSTALI
Una particolare problematica, in tema di attivo ereditario per l’imposta di successione, riguarda il caso di conti correnti bancari o postali intestati al solo defunto in regime patrimoniale di comunione legale dei beni.
A) In un primo momento, la Corte di Cassazione, con le sentenze n. 14686 del 2005 e n. 1363 del 1999, aveva stabilito che la prova contraria a carico del coerede o del legatario deve avere ad oggetto non la mera verosimiglianza ma l’effettività dell’appartenenza di una quota di cointestazione dei beni in esame, nel senso della prova dell’acquisto a loro nome e con loro proventi, nonché la posteriorità del loro acquisto rispetto all’eventuale dimostrata disponibilità economica degli interessati, che si qualifichino come cointestatari effettivi.
B) Oggi, invece, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con l’importante sentenza n. 10386 del 06 maggio 2009, cambia totalmente indirizzo, stabilendo il seguente principio: “Il saldo attivo di un conto corrente bancario o postale intestato in regime di comunione legale dei beni soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, deve considerarsi pure facente parte della comunione legale dei beni al momento del decesso dell’intestatario, ai sensi dell’art. 177, primo comma, lett. c), c.c. allorquando cioè si verifica in concreto lo scioglimento della comunione determinato dalla morte, con il conseguente riconoscimento, a maggior ragione da tale data, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo; sicchè il coniuge superstite, attesa la presunzione di parità delle quote, ha un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui persino nell’ipotesi che essi fossero stati esclusivi del coniuge defunto”.
Con questo importante “revirement” della Suprema Corte, viene finalmente privilegiato l’aspetto sostanziale rispetto a quello meramente formale dell’intestazione unica, per cui l’imposta di successione non può legittimamente applicarsi sull’intero saldo attivo del conto corrente bancario o postale ma soltanto alla metà che era di pertinenza del defunto, in quanto l’altra metà era già in precedenza spettante al coniuge superstite (v. pure Cass., sentenze n. 19567 del 16 luglio 2008 e n. 8002 del 2004).
C) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 6327 del 19 dicembre 2007, depositata il 10 marzo 2008, ha ribadito un orientamento consolidato riguardante l’imposizione del soggetto chiamato all’eredità successivamente alla rinuncia esercitata dall’erede del de cuius. La Corte, infatti, afferma il principio secondo cui ai fini dell’imposta sulle successioni non rileva l’accettazione dell’eredità quanto piuttosto la semplice delazione per esprimere l’accettazione o meno delle stessa. Differenze tra disposizioni civilistiche e quelle riguardanti il tributo successorio. Secondo l’articolo 467 del Codice civile alla rinuncia dell’eredità da parte dell’erede diretto succede quello in linea retta, il quale è chiamato ad accettare oppure a rifiutare l’eredità. Nel tributo successorio, per converso, il presupposto impositivo viene ad esistere nella semplice chiamata all’eredità, così come previsto dall’articolo 7 del Dlgs 346/1990. Pertanto, il contribuente risulta obbligato ad adempiere all’obbligazione tributaria al momento in cui viene chiamato a decidere se accettare o meno l’eredità, salvo il diritto di poter successivamente richiedere il rimborso di quanto indebitamente versato.
CASO N. 49
COMUNICAZIONE PREVENTIVA ALLA
CARTELLA DI PAGAMENTO
A) L’art. 6, comma 5, della Legge n. 212 del 27 luglio 2000 (Statuto dei diritti del contribuente) e l’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 462 del 18 dicembre 1997, in sostanza, prescrivono che non si può procedere ad iscrivere a ruolo le somme risultanti dalla liquidazione della dichiarazione ex artt. 36-bis DPR n. 600/73 e 54-bis DPR n. 633/72 prima che siano decorsi 30 giorni dall’invio della relativa e specifica comunicazione e, di conseguenza, ciò vale implicitamente ad elevare l’invio di detta comunicazione alla stregua di condizione di procedibilità per l’ulteriore atività esattiva.
Ne discende che la sua omissione costituisce causa di nullità del ruolo, in forza del principio secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento infirma tutti gli atti nei quali esso si articola (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 16424/2002).
B) Sull’obbligo del contraddittorio prima di procedere alle iscrizioni a ruolo si è pronunciata la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con l’importante sentenza n. 21498 del 12 novembre 2004, che ha statuito:
“se, da un lato, il termine di decadenza previsto dall’art. 17 del D.P.R. n. 602/1973 risulta notevolmente ridotto ad opera del D.Lgs. n. 46/1999, dall’altro, il legislatore ha previsto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 6, comma 5, della Legge n. 212/2000, l’obbligo di comunicare al contribuente il risultato della liquidazione della dichiarazione prima dell’iscrizione a ruolo, pena la illegittimità della stessa iscrizione a ruolo”.
Successivamente, la Suprema Corte ha definitivamente sancito che l’Amministrazione finanziaria è obbligata, per le dichiarazioni presentate dal 1° gennaio 1999, a comunicare al contribuente l’esito della liquidazione della dichiarazione, pena la nullità della successiva iscrizione a ruolo (Cassazione, sentenza n. 110 dell’08 gennaio 2007).
C) Con l’ordinanza 15109/09 del 05 maggio 2009, depositata il 26 giugno 2009, la Suprema Corte di Cassazione ha esteso l’ambito applicativo dell’articolo 15, comma 8, della legge 27 dicembre 2002 n. 289. La controversia, esaminata dalla Corte di cassazione e da cui tale statuizione è scaturita, è sorta a seguito dell’impugnazione di una cartella esattoriale, ex articolo 36-bis del Dpr 29 settembre 1973 n. 600, contestata per tardività della notifica, a fronte dell’intervenuta prescrizione dei termini di cui agli artticoli 25 e 17 del Dpr 602/1973, oltre che per irregolarità dell’attribuzione del debito tributario; mentre all’eccezione di tardiva proposizione del ricorso, ai sensi dell’articolo 21 del Dlgs 546/1992, sostenuta dall’ufficio, veniva opposta l’intervenuta sospensione dei termini, introdotta dall’articolo 15 della legge 289/2002. Ciononostante, però, tale controversia si è conclusa, nel giudizio di merito, con sentenza che ha dichiarato inammissibile il ricorso per tardività, ritenendo ininfluente alla fattispecie de qua la sospensione contenuta nella disposizione recata dall’articolo 15 della legge 289/2002. Da qui, dunque, l’esigenza del contribuente di ricorrere in Cassazione, denunciando la violazione dell’articolo 15, comma 8, della legge citata.
Cosa prevede la norma. Stando al contenuto della norma citata, essa testualmente dispone che «Dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al 20 maggio 2003 restano sospesi i termini per la proposizione del ricorso avverso gli avvisi di accertamento di cui al comma 1 gli atti di cui al comma 3-bis, nonché quelli per il perfezionamento della definizione di cui al citato decreto legislativo n. 218 del 1997, relativamente agli inviti al contraddittorio di cui al medesimo comma 1». Con l’ordinanza in esame, invece, la Suprema Corte ha fatto rientrare «nell’ambito della sospensione dei termini, prevista dalla legge 289/2002 per la proposizione dei ricorsi giurisdizionali, la controversia introdotta con l’impugnazione di cartella esattoriale emessa ai sensi dell’articolo 36-bis del Dpr 600/1973, dovendo ritenersi che detta cartella, risultando essere il primo e unico atto con il quale l’Amministrazione esercita la pretesa tributaria, debba essere qualificata, a prescindere dalla sua formale definizione, come atto di imposizione (Cassazione, sentenze nn. 3427/2005, n. 7892/2005)». Già con altra precedente pronuncia (Cassazione, sentenza 7892/05), la Suprema Corte aveva ritenuto una cartella di pagamento, emessa in applicazione dell’articolo 36-bis del Dpr 600/1973 e relativa all’irrogazione di sopratasse e interessi per ritardato pagamento Irpef e Ilor per l’anno 1992, un atto d’irrogazione di sanzioni e in quanto tale ne aveva, altresì, riconosciuto la natura di atto impositivo. Per cui, statuendo in tal senso, l’ordinanza in questione si è posta in un rapporto di continuità con il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità, seppur riguardante l’articolo 16 della legge citata, relativo a qualunque controversia avente come oggetto «avvisi di accertamento, provvedimenti di irrogazione di sanzioni e», ancora più in generale, «ogni altro atto d’imposizione», senza nessuna esclusione, salvo il caso in cui si tratti di controversie non riguardanti atti d’imposizione in senso stretto come un ruolo o una cartella già preceduti da un avviso di accertamento.
Spunti riflessivi. A questo punto, volendo trarre alcune riflessioni dalla più recente statuizione della Suprema corte, ciò che, in definitiva, risulta particolarmente interessante è che l’oggetto dell’articolo 15 citato, come anticipato in principio, viene notevolmente esteso, facendo, dunque, rientrare nella sospensione dei termini disposta dal comma 8 del suddetto articolo non solo gli atti previsti in maniera esplicita dalla norma, quali gli avvisi di accertamento, gli atti di contestazione, gli avvisi di irrogazione sanzioni, gli inviti al contraddittorio e i processi verbali di constatazione, ma anche tutte le impugnazioni avverso cartelle esattoriali non precedute da provvedimenti di accertamento e, tra queste, quindi, indubbiamente quelle emesse a seguito di liquidazioni disposte ex articoli 36-bis e 36-ter del Dpr 600/1973, in quanto atti impositivi al pari di un avviso di accertamento. Per cui, conseguentemente a ciò, nel valutare i termini di cui all’articolo 21 del Dlgs 31 dicembre 1992 n. 546, laddove, come nel caso di specie, ne ricorrano i presupposti, è necessario tener conto della sospensione di cui all’articolo 15 citato, come ha fatto per l’appunto la Suprema Corte, nell’ordinanza de qua, accogliendo il ricorso proposto dal contribuente.
CASO N. 50
TOSAP
APPALTI COMUNALI
ESENTI DA IMPOSTA
A) Il presupposto impositivo della TOSAP è costituito dalle occupazioni di qualsiasi natura di spazi ed aree, anche del sottosuolo, del demanio o del patrimonio indisponibile dei Comuni e delle Province.
La tassa trova la sua ratio nell’utilizzazione che il singolo faccia nel proprio interesse di un’area altrimenti destinata all’uso della generalità dei cittadini, ovvero nel venir meno per la collettività e per l’ente che la rappresenta della disponibilità di porzioni di suolo altrimenti inglobate nel sistema viario.
Tuttavia, con riferimento all’ipotesi di occupazione da parte di un’impresa appaltatrice di lavori per conto del Comune, deve essere negata l’applicabilità del tributo per difetto del presupposto impositivo.
In questo caso, infatti, l’occupazione del suolo pubblico costituisce soltanto la conseguenza di obblighi contrattuali dell’appaltatore di eseguire i lavori ed il Comune di consegnarli l’intera area occorrente per l’esecuzione dell’opera appaltata (Cassazione, sentenza n. 17719 del 30 luglio 2009).
B) La Corte di Cassazione, Sezione V Civile, con la sentenza n. 19843 del 23 giugno 2009, depositata il 15 settembre 2009, ha stabilito che il parcheggio non paga la TOSAP se è sull’area demaniale, in base ai seguenti principi di diritto:
– Il canone, secondo giurisprudenza condivisa dal collegio (S.U. nn. 14864/2006, 12167/2003; Cass. n. 23244/2006), rappresenta un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dal tributo in luogo del quale può essere applicato, e risulta configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici.
5.4.2.- L’ammissibile alternatività del canone, rispetto alla tassa, sta certamente a significare una mens legis non ostativa in generale, e salvo esame delle specifiche clausole convenzionali – della possibilità di considerare il concessionario quale mero utilizzatore e gestore, in virtù e nei limiti della concessione, del servizio svolto sul bene pubblico; ossia quale mero sostituto del comune concedente che resterebbe, in tal caso, l’unico vero occupante della sede stradale, nell’alto di delimitarne la parte – non strettamente necessaria alla funzione primaria di libera circolazione – che rivela potenzialità economiche connesse all’opportunità di parcheggio dei veicoli.
Si deve quindi intendere che il concessionario, attraverso il quale l’ente territoriale concedente agisce per lo sfruttamento dei beni appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, debba andare esente dal tributo, del quale mancherebbe il presupposto oggettivo, allo stesso modo dell’ente suddetto, che non sarebbe tenuto ovviamente al pagamento della tassa verso se stesso, e che peraltro è esentato soggettivamente dal tributo, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 49, lett. a); salvo che una diversa volontà pattizia emerga dall’atto di concessione, anche con riferimento specifico alla TOSAP, non essendo sufficienti generiche espressioni a significare l’intenzione del concedente di cumulare canone e tassa.
5.4.3. Alla spettanza dell’esenzione, nei termini suddetti, non è di ostacolo la mancanza, nell’attività di gestione del parcheggio, di “finalità specifiche di assistenza, previdenza, sanità, educazione, cultura e ricerca scientifica”, che il citato art. 49, lett. a), richiede per esentare dalla tassa alcuni enti pubblici, non anche lo Stato e gli enti territoriali e loro consorzi, che godono del beneficio per ragioni puramente soggettive (in tal senso, condivisibilmente, Cass. n. 7197/2000, in motivazione).
5.4.4. Nè, d’altra parte, osterebbe il rilievo che il concessionario, agendo in qualità d’imprenditore commerciale, si proponga uno scopo di lucro. Come si è già avuto modo di osservare (par. 5.3.1), l’atto di concessione rappresenta il punto d’incontro, per reciproca convenienza lasciata all’insindacabile (in questa sede) valutazione delle parti, degli interessi pubblici e privati in gioco; ciò non toglie che il concessionario, appositamente autorizzato, eserciti poteri altrimenti di competenza dell’ente territoriale, indispensabili per il raggiungimento degli scopi comuni. L’esenzione di cui si discute deriva da tale investitura, nel quadro del citato art. 49, lett. a), e non è collegata in alcun modo all’aspetto economico o, più propriamente, commerciale dell’iniziativa.
Analogamente aveva peraltro concluso – pur prescindendo dalle considerazioni relative alla normale alternatività (salvo espressa volontà contraria) fra tassa e canone concessorio (par. 5.4.1) – la già citata Cass. n. 7197/2000, mentre le successive Cass. nn. 15629/2004, 11175/2004, 1640/2004 non sembrano significative (se non per a contrariis) nel caso in esame, poiché si riferiscono all’appaltatore che, a differenza del concessionario, non opera “in luogo” dell’ente, ma solo “nell’interesse” del medesimo.
Ad identica conclusione perviene Cass. n. 17495/2003, che appunto esclude la spettanza dell’esenzione perché il privato, pur agendo in virtù di convenzione col comune, aveva “disposto delle aree e degli spazi pubblici non in nome di quest’ultimo, bensì in proprio ed autonomamente”.
5.4.5.- Si tratta quindi di conoscere, con indagine riservata al giudice di merito, al fine di decidere circa la spettanza dell’esenzione, in quale veste esattamente abbia agito il concessionario nella fattispecie dedotta in giudizio; e se l’atto di concessione contempli espressamente, oppure no, l’obbligo della ricorrente di pagare, oltre al canone, anche la TOSAP”.
CASO N. 51
PRESCRIZIONE LUNGA PER I RIMBORSI
Se il contribuente evidenzia in dichiarazione un credito d’imposta, non occorre, al fine di ottenere il rimborso, alcun altro adempimento.
Egli deve solo attendere che l’Amministrazione finanziaria eserciti, sui dati esposti nel modello, il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte, secondo lo strumento della rettifica della dichiarazione.
Una volta che il credito si sia consolidato, attraverso un riconoscimento esplicito in sede di liquidazione, l’Amministrazione finanziaria deve eseguire il rimborso ed il relativo credito del contribuente è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale decorrente dal riconoscimento del credito stesso (Cassazione, sentenza n. 17697 del 30 luglio 2009).
CASO N. 52
CONTRADDITTORIO INDISPENSABILE
Il ruolo e l’importanza del contraddittorio preventivo tra il fisco ed i contribuenti nelle procedure di accertamento presuntivo standardizzate (basate cioè su strumenti in grado di misurare a tavolino i ricavi o i redditi che dovrebbero essere dichiarati) sono stati evidenziati nella relazione decennale redatta dall’ufficio del Massimario della Corte di Cassazione del 09 luglio 2009.
In particolare, secondo ormai una giurisprudenza costante della Suprema Corte, sono stati stabiliti i seguenti principi:
1) in mancanza di un contraddittorio preventivo, l’accertamento standardizzato, anche se non previsto dalla legge, è da ritenersi nullo;
2) nessuna preclusione può derivare al contribuente che, seppur invitato, decide di non partecipare al contraddittorio o decide, pur partecipando, di non dire nulla; avrà, comunque, la possibilità di presentare in giudizio le medesime eccezioni e giustificazioni che avrebbe potuto far valere in sede di contraddittorio anticipato.
In sostanza, secondo i giudici di legittimità, il contraddittorio svolge un duplice ruolo:
– una funzione di carattere strumentale rispetto alla correttezza formale dell’intero procedimento di accertamento;
– consente di attivare la procedura dell’accertamento con adesione nell’interesse di entrambe le parti.
Schematicamente, la Corte di Cassazione, Sez. trib., ha stabilito la nullità dell’avviso di accertamento non preceduto dal contraddittorio, anche se non previsto dalla legge, con le seguenti sentenze:
1) per i coefficienti presuntivi (sentenze n. 4624 del 22/02/2008; n. 26404 del 05/12/2005; n. 12612 del 26/05/2006);
2) per gli studi di settore (sentenze n. 13995 del 27/09/2002; n. 9135 del 03/05/2005; n. 17229 del 28/07/2006);
3) per i parametri (sentenza n. 2816 del 07/02/2008);
4) per il redditometro (sentenza n. 4624 del 22/02/2008).
Inoltre, i giudici di legittimità hanno stabilito:
– la nullità dell’avviso di accertamento presuntivo che non richiama il contraddittorio nella motivazione (sentenze n. 4387 del 27/03/2002 e n. 4624 del 22/02/2008);
– la mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio non esclude la possibilità di far valere, in ogni caso, le proprie eccezioni nel processo tributario (sentenze n. 2816 del 07/02/2008 ed ordinanza n. 12630 del 28/05/2008).
CASO N. 53
ANTIECONOMICITA’ DEI COMPORTAMENTI
DEL CONTRIBUENTE
A) In un primo momento, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6599/2002, aveva stabilito il principio che, una volta accertata l’inerenza del costo sul piano qualitativo, e cioè la sua astratta idoneità a produrre ricavi, sia precluso al fisco la messa in discussione della misura della sua deducibilità, anche in riferimento alla libertà d’impresa sancita dall’art. 41 della Costituzione (vedi anche Cassazione, sentenza n. 21155/2005).
B) Successivamente, però, i giudici di legittimità hanno cambiato indirizzo interpretativo ed hanno affermato il principio di diritto per cui, in presenza di un comportamento palesemente contrario ai canoni dell’economia, è legittima la rettifica analitico-induttiva operata ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del DPR 29 settembre 1973 n. 600 (da ultimo, Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 23635, depositata il 15 settembre 2008).
In definitiva, secondo i giudici di legittimità, se è vero che il contribuente è libero di organizzare e svolgere la propria attività in maniera antieconomica è, altresì, vero che ove da simile condotta derivi un’attenuazione dell’obbligo di contribuire alla spesa pubblica (art. 53 della Costituzione), egli sarà tenuto a dare conto alla collettività di tale autonoma scelta.
Tale orientamento giurisprudenziale muovendo dalla sentenza n. 1821/2001, col tempo si è andato, via via, consolidando con riguardo a fattispecie tra le più disparate (Cassazione, Sez. trib., sentenze n. 13478/2001; n. 6337/2002; n. 9497/2008; n. 417/2008; n. 23655/2008; n. 11645/2001; n. 7680/2002; n. 20748/2006; n. 1409/2008; n. 1915/2008).
CASO N. 54
IMPOSTA DI REGISTRO
VALUTAZIONE AUTOMATICA
DECADENZA TRIENNALE
A) In tema di imposta di registro, qualora il contribuente abbia manifestato la volontà di avvalersi del criterio di valutazione automatica, previsto dall’art. 12 del D.L. n. 70/1988, convertito con modificazioni dalla Legge n. 154/1988, in riferimento ad un immobile non ancora iscritto in catasto, la maggiore imposta liquidata dall’ufficio fiscale a seguito dell’attribuzione della rendita catastale ha natura di imposta complementare, dal momento che la sua determinazione non ha luogo sulla base di elementi desunti dall’atto o comunque indicati dalle parti, ma richiede un’attività ulteriore dell’Amministrazione finanziaria, avente rilevanza non meramente interna, in quanto produttiva di atti autonomamente impugnabili.
Ne consegue che, anche in tale ipotesi, il termine di decadenza, previsto ai fini della notifica dell’avviso di liquidazione dall’art. 76 del DPR n. 131/1986, è triennale (e non biennale) ed è soggetto alla sospensione dei termini di prescrizione e decadenza riguardanti l’accertamento e la riscossione delle imposte di cui all’art. 57, comma 2, della Legge n. 413/1991, avente portata generale, ed applicabile anche ai rapporti sorti successivamente alla scadenza dei termini di cui all’art. 53 della medesima legge, per i quali il contribuente non poteva più avvalersi della definizione agevolata (Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 6515 dell’11 dicembre 2008, depositata il 18 marzo 2009).
Si tratta di un indirizzo che sotto questo profilo, almeno sino ad oggi, può intendersi ormai consolidato, ponendosi la suddetta sentenza in linea con i precedenti della Suprema Corte (sentenze:
– n. 1615 del 25 gennaio 2008;
– n. 25685 del 10 dicembre 2007;
– n. 16098 del 20 luglio 2007;
– n. 5088 del 09 marzo 2005;
– n. 13856 del 23 luglio 2004;
– n. 10192 del 26 giugno 2003;
– n. 8418 del 13 giugno 2002).
B) Inoltre, a puro titolo informativo, si fa presente che l’art. 24 della Legge comunitaria n. 88 del 07 luglio 2009 ha abrogato le disposizioni, introdotte con il D.L. 04 luglio 2006 n. 223, convertito, con modificazioni, dalla Legge 04 agosto 2006 n. 248 (decreto “Visco-Bersani”), che consentivano di effettuare gli accertamenti per i trasferimenti immobiliari, ai fini IVA e delle imposte sui redditi, sulla base del valore normale degli immobili.
I criteri per la determinazione, del valore normale dei fabbricati sono stati successivamente individuati sulla base dei valori dell’Osservatorio del mercato immobiliare (O.M.I.) dell’Agenzia del Territorio, per effetto di quanto disposto dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 27 luglio 2007.
C) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 20096 del 08 luglio 2009, depositata il 18 settembre 2009, in tema di trasferimenti di beni di interesse artistico, storico ed architettonico, ha stabilito il seguente principio di diritto:
“Il Collegio ritiene, infatti, di condividere il principio affermato dalla sentenza richiamata dall’Avvocatura, secondo cui l’agevolazione, prevista per i trasferimenti di beni d’interesse artistico storico ed architettonico in materia di imposta di registro, non può essere estesa alle imposte ipotecaria e catastale, non essendo sufficiente, per giustificare l’estensione, la previsione di una base imponibile comune.
Tale principio è stato confermato dalla successiva giurisprudenza della Sezione (fra le altre, sentenza n. 8977/07; 3573/09) e il Collegio non ritiene che siano state prospettate ragioni per seguire la tesi accolta dalla Commissione Tributaria Regionale.
Legittimamente, pertanto, l’ufficio ha richiesto l’applicazione delle imposte in contestazione in misura proporzionale”.
CASO N. 55
CONTRASTO TRA LA CORTE DI CASSAZIONE E
LA CORTE COSTITUZIONALE
Nel vasto e complesso panorama della giurisprudenza tributaria non sono mancati momenti in cui si è assistito ad un forte contrasto tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale e ciò ha creato enormi disagi tra gli operatori del settore.
A) In particolare, il contrasto si è verificato per quanto riguarda il concetto di “controversia avente natura tributaria”.
Infatti, secondo la Corte di Cassazione, la natura tributaria deve essere riconosciuta:
– innanzitutto, in base ad una qualificazione formale (sentenza n. 25551 del 23 ottobre 2007);
– tenendo conto anche dell’elemento soggettivo, e non esclusivamente dell’elemento oggettivo (sentenza n. 2888/06 del 12 gennaio 2006 ed ordinanza n. 3171/08 dell’11 febbraio 2008);
– “a tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazioni o in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico o in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed il beneficio che il singolo riceve” (sentenze n. 123/07 del 07 dicembre 2007; n. 5908/08 del 12 febbraio 2008; n. 23800/2004);
– L’aspetto impositivo emerge dalla presenza di:
a) un’obbligazione tributaria;
b) strumenti di acquisizione coercitiva;
c) imposizione autoritativa;
d) obbligatorietà del versamento;
e) assenza di una qualsiasi forma di beneficio diretto della prestazione correlato al pagamento delle somme dovute (sentenza n. 23800/2004 e n. 123 del 07 dicembre 2006).
B) Invece, secondo la Corte Costituzionale, la natura tributaria deve essere riconosciuta sulla base di criteri che consistono:
– nella doverosità della prestazione;
– e nel collegamento di questa alla pubblica spesa;
– con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante,
– indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate;
– ed avendo riguardo solo all’elemento oggettivo e mai a quello soggettivo.
In tal senso, le sentenze n. 64 del 14 marzo 2008, n. 130 del 14 maggio 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005.
Dei suddetti più chiari e restrittivi concetti della Corte Costituzionale, d’ora in poi, ne dovranno tener conto sia il legislatore sia gli interpreti (per una più approfondita analisi su tali problematiche rinvio alla mia monografia “La competenza delle Commissioni tributarie quali organi speciali di giurisdizione” Carra Editrice – in www.studiotributariovillani.it).
C) Ultimamente, i suesposti principi sono sati ribaditi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 238/2009 del 16 luglio 2009, in materia di T.I.A..
D) Un ulteriore forte contrasto giurisprudenziale tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale si è manifestato in tema di proroga dei termini a favore degli uffici fiscali.
Infatti, la Corte di Cassazione civile, con l’ordinanza n. 1603, depositata il 25 gennaio 2008, ha sollevato sul punto questione di incostituzionalità in riferimento agli artt. 24 e 111, comma 2, della Costituzione, che invece la Corte Costituzionale ha rigettato con la sentenza n. 56 del 2009 del 23 febbraio 2009, depositata in cancelleria il 27 febbraio 2009 (in G.U. n. 9 del 04/03/2009), come dettagliatamente esposto nel presente lavoro (voce “proroga dei termini a favore degli uffici fiscali”).
E)La Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 244/2009 del 16 luglio 2009, depositata il 24 luglio 2009, ha ulteriormente precisato il seguente principio:
“Considerato che la Commissione tributaria regionale della Campania dubita, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, della legittimità dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), secondo il quale: «Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza»;
che il giudice rimettente censura la disposizione nella parte in cui «non prevede la nullità dell’atto di accertamento», qualora il medesimo venga «notificato prima dello spirare del termine di 60 giorni che deve trascorrere dalla data di consegna del processo verbale di contestazione e la notifica dell’atto di accertamento»;
che la questione di legittimità costituzionale è manifestamente inammissibile, perché il giudice a quo, invece di sollevarla, avrebbe dovuto preliminarmente esperire un tentativo di interpretare diversamente la disposizione censurata ed il complessivo quadro normativo in cui essa si inserisce, cosí da consentire di superare il prospettato dubbio di costituzionalità;
che, in particolare, la Commissione tributaria avrebbe dovuto saggiare la possibilità di ritenere invalido l’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del suddetto termine di sessanta giorni, nel caso in cui tale avviso sia privo di una adeguata motivazione sulla sua «particolare […] urgenza»;
che, a sostegno di tale percorso ermeneutico, il giudice rimettente avrebbe potuto prendere in considerazione il combinato disposto della censurata disposizione con l’art. 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000 e con gli artt. 3 e 21-septies della legge 27 luglio 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi);
che, alla luce di tali disposizioni, la Commissione tributaria avrebbe potuto prendere atto del fatto che lo specifico obbligo di motivare, anche sotto il profilo dell’urgenza, l’avviso di accertamento emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni decorrente dal rilascio al contribuente della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, da parte degli organi di controllo, è previsto dalla stessa disposizione censurata ed è espressione del generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi e, tra essi, di quelli dell’amministrazione finanziaria (artt. 3 della legge n. 241 del 1990 e 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000);
che, sulla base di tale premessa, la rimettente avrebbe potuto altresí valutare se, nel caso in esame, l’inosservanza dell’obbligo di motivazione, anche in relazione alla «particolare […] urgenza» dell’avviso di accertamento, sia già espressamente sanzionata in termini di invalidità dell’atto, in via generale, dall’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 – che prevede tale sanzione per il provvedimento amministrativo privo di un elemento essenziale, quale è la motivazione – e, con speciale riferimento all’accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, dagli artt. 42, secondo e terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) e 56, quinto comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), i quali stabiliscono che l’avviso di accertamento deve essere motivato, a pena di nullità, in relazione ai presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato;
che il giudice a quo si è limitato, invece, ad asserire che la disposizione censurata non è assistita da alcuna sanzione di invalidità, facendo derivare da tale mera asserzione la prospettata illegittimità costituzionale;
che, anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte in punto di manifesta inammissibilità della questione, va, in ogni caso, rilevata l’inconferenza degli artt. 24 e 111 Cost., quali evocati parametri di costituzionalità;
che, infatti, la norma censurata, essendo diretta a regolare il procedimento di accertamento tributario, non ha natura processuale ed è, quindi, estranea all’ambito di applicazione dei suddetti parametri costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009; ordinanze n. 211 e n. 13 del 2008, n. 180 del 2007; nonché, con particolare riferimento all’art. 24 Cost., ordinanze n. 940 e n. 21 del 1988, n. 324 del 1987).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Campania con l’ordinanza indicata in epigrafe “.
Con tali affermazioni, la Corte Costituzionale ha di fatto riconosciuto l’importanza del termine di 60 giorni dalla notifica del processo verbale prima del quale l’Ufficio non può emanare l’avviso di accertamento, pena la nullità dello stesso.
CASO N. 56
PROROGA DEI TERMINI A FAVORE DEGLI UFFICI FISCALI
A) La Corte di Cassazione civile, con l’ordinanza n. 1603, depositata il 25 gennaio 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del “coordinato disposto” degli artt. 1 e 2 della Legge 592/1985 (e successive modificazioni) nonché dell’art. 3 del decreto legge n. 498 del 1961, quale sostituto dell’art. 33 della legge 18 febbraio 1999 n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di funzionamento dell’Amministrazione finanziaria e di revisione generale del catasto), in quanto prorogano i termini processuali ed amministrativi degli uffici a determinate condizioni.
B) La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 56/2009 del 23 febbraio 2009, depositata in cancelleria il 27 febbraio 2009 (in G.U. n. 9 del 04/03/2009), invece, ha rigettato tutte le suddette eccezioni, utilizzando (caso veramente assurdo!) le stesse motivazioni che la Corte di Cassazione aveva adottato in precedenti sentenze.
Infatti, la Corte Costituzionale, nel motivare e giustificare il proprio impianto argomentativo, così scrive:
“Questo stesso impianto argomentativo è adottato anche dalla Corte di Cassazione civile, nell’interpretazione dei medesimi artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 498 del 1961.
La Corte di legittimità, con pronunce costituenti, per numero ed uniformità, diritto vivente, ha infatti ritenuto che:
a) la proroga prevista da dette disposizioni opera a favore sia dell’amministrazione finanziaria che dei contribuenti (ex plurimis, sentenze n. 11456 del 2005 e n. 767 del 1998);
b) il decreto di proroga dei termini costituisce un atto amministrativo “meramente ricognitivo delle circostanze di fatto (mancato o irregolare funzionamento degli uffici a causa di eventi eccezionali)” al cui verificarsi la legge ricollega la proroga (ex plurimis, sentenze n. 1609 del 2008; n. 11456 del 2005; n. 3140 del 1992; n. 7077 del 1991);
c) tale decreto è incidentalmente sindacabile dal giudice ordinario o tributario, il quale può disapplicarlo, ove ne accerti l’invalidità, in relazione ad ogni possibile vizio dell’atto, “compreso quello di eccesso di potere” e con il solo limite “dell’impossibilità di riesame e di censura delle valutazioni di merito compiute da un organo della P.A.” (ex plurimis, sentenze n. 1609 del 2008; n. 10271 del 2007; n. 9441 del 2005).
Alla luce di tale univoca interpretazione, è evidente che le disposizioni denunciate non violano i suddetti evocati parametri costituzionali”.
C) Sull’argomento scrive opportunamente il prof. E. De Mita (in Il Sole 24 ore di domenica 23 agosto 2009): “C’è da augurarsi dunque che anche la Corte Costituzionale riveda la propria giurisprudenza, ponendo così le premesse per una riconsiderazione del problema, che tocca anche altri settori dell’ordinamento tributario.
Basti pensare, per rimanere all’esempio più eclatante, alla norma (articolo 43, comma 3, del DPR 600/1973) che prevede la proroga (anzi, il raddoppio) dei termini per l’accertamento in caso di violazioni di carattere penale, per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 74/2000; in questo caso, le violazioni al criterio di ragionevolezza che essa contiene sono molteplici, per cui non resta che augurarsi che la questione venga presto sollevata, sempre che l’amministrazione stessa ne chieda la soppressione, quanto meno per ragioni di stile giuridico”.
CASO N. 57
PROBLEMATICHE IN MATERIA DI TIA E TARSU
A) In materia di T.I.A. (Tariffa igiene ambientale), la principale problematica che si è posta è sulla natura tributaria o meno della stessa.
La Corte di Cassazione, sul punto, si è pronunciata in modo contrastante.
Infatti, ad una pronuncia della Corte di Cassazione che ha qualificato come non tributaria tale prestazione pecuniaria (Sezioni Unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto seguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni e differenze linguistiche, hanno, invece, ricondotto detta prestazione nel novero dei tributi (Sezioni Unite: ordinanza n. 3171 del 2008; sentenze n. 13902 del 2007, n. 4895 del 2006; Sezioni semplici: sentenze n. 5298 e n. 5297 del 2009, n. 17526 del 2007).
Pertanto, al fine di determinare la natura (tributaria o extratributaria) della TIA, oggetto peraltro di contrastanti opinioni anche nella dottrina, si è reso necessario un deciso e risolutivo intervento della Corte Costituzionale.
B) La Corte Costituzionale, con l’importante sentenza n. 238/2009 del 16 luglio 2009, depositata in cancelleria il 24 luglio 2009, ha riconosciuto la natura tributaria della TIA, in quanto dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi; entrambi mostrano un’identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo.
I giudici costituzionali, peraltro, chiariscono che: “A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra le possibili interpretazioni della censurata disposizione e dell’art.49 del D.Lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell’art. 102 Cost., appare conforme a Costituzione (sulla necessità, in generale, di privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata, ex plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009).
Le controversie aventi ad oggetto la debenza della TIA, dunque, hanno natura tributaria, e la loro attribuzione alla cognizione delle Commissioni tributarie, ad opera della disposizione denunciata rispetta l’evocato parametro costituzionale”.
C) A seguito della natura tributaria della TIA, la Corte Costituzionale, con la succitata sentenza n. 238/2009 (punto 7.2.3.6), ha stabilito che non è applicabile l’IVA.
“Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità del prelievo quest’ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA, ai sensi degli articoli 3 e 4 del DPR n. 633 del 1972, e caratterizzato dal pagamento di un “corrispettivo” per la prestazione di servizi. Non esiste, del resto, una norma legislativa che espressamente assoggetti ad IVA le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti……..”.
La suddetta interpretazione, nel futuro immediato, porterà ad una serie di problemi sia per quanto riguarda le richieste di rimborso sia per quanto riguarda le detrazioni IVA a fronte di operazioni esenti.
Questo è l’assurdo che viene a crearsi in materia tributaria quando la legge non è scritta in modo chiaro e, soprattutto, quando le interpretazioni non sono univoche, soprattutto da parte della stessa Corte di Cassazione, dovendo fare affidamento sulle sentenze della Corte Costituzionale, che però arrivano a distanza di molti anni.
D) Infine, a puro titolo informativo, si fa presente che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 04 maggio 2009, depositata l’08 maggio 2009, ha affermato la sussistenza della giurisdizione delle Commissioni tributarie per le controversie relative al canone per l’installazione di mezzi pubblicitari (CIMP), che deve, dunque, ritenersi entrata tributaria.
Questa volta, però, a differenza di quanto era avvenuto nella precedente sentenza n. 64 del 2008 relativa al COSAP, la Consulta non ha potuto limitarsi a prendere atto dell’opinione espressa dalla giurisprudenza in ordine alla natura tributaria dell’entrata, ma ha dovuto procedere autonomamente al riguardo, riconoscendo così la continuità di disciplina e, quindi, di natura giuridica tra l’imposta di pubblicità ed il CIMP.
E) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 16878 del 10 giugno 2009, depositata il 21 luglio 2009, ha stabilito che le indicazione proprie dei regolamenti comunali circa l’assimilazione dei rifiuti provenienti dalle attività economiche a quelli urbani ordinari assumono rilievo decisivo, con riferimento alle annualità d’imposta dal 1997 in poi.
Infine, la Corte di Cassazione, Sezione Unite, con la sentenza n. 7581 del 03 marzo 2009, depositata il 30 marzo 2009, ha stabilito il seguente principio:
“La disciplina della TARSU, che individua nella ordinaria produzione di rifiuti speciali, tossici o nocivi su superfici a ciò strutturate e destinate una vera e propria causa di esclusione dalla tassa di quelle superfici, evidenzia, da un lato, l’impossibilità, ai fini della determinazione della superficie tassabile, di tener conto di (e, quindi, di includere nel calcolo) quella parte della superficie complessiva detenuta dal contribuente nella quale, per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione, si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi (ovverosia rifiuti da smaltire a cura e spese dei produttori degli stessi); dall’altro, che il potere di individuare nel regolamento comunale categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi alle quali applicare una percentuale di riduzione rispetto all’intera superficie su cui l’attività viene svolta può essere esercitato solo per l’individuazione e la specificazione di categorie di attività produttive di rifiuti, e non per la previsione di un limite solo quantitativo di assimilazione, da applicare indifferentemente a tutte le attività produttive”.
F) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con l’importante sentenza n. 13711 del 19 maggio 2009, depositata il 12 giugno 2009, affronta una serie di complesse problematiche, concernenti l’imponibilità ai fini TARSU delle strutture ospedaliere e sanitarie.
In definitiva, la Corte di Cassazione con la suddetta sentenza ha stabilito i seguenti principi di diritto:
“Al riguardo può muoversi dal D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, emanato in base alla legge delega 9 febbraio 1982, n. 42, al fine di attuare le direttive CEE n. 75/442, 76/403 e 78/319, che, all’art. 2, classificava i rifiuti in urbani, speciali, tossici e nocivi, e manteneva la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani alla competenza dei Comuni, che applicavano la relativa tassa (TARSU): l’art. 60 di tale decreto legislativo (del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507 – N.d.R.), autorizzava tuttavia i Comuni ad assimilare, con apposito regolamento comunale, ai rifiuti urbani i rifiuti derivanti da attività commerciali, artigianali e di servizi, rispettando il regime convenzionale per i rifiuti speciali non assimilabili. Su tale impianto normativo è poi
intervenuta la legge n. 146/1994, il cui art. 39 abrogava il cit. art. 60 del D.Lgs. n. 507/1993, stabilendo l’assimilazione ope legis ai rifiuti urbani dei rifiuti speciali «indicati al n. 1, punto 1.1.1, lett. a), della delibera 27 luglio 1984 del Comitato interministeriale indicato di cui all’art. 5 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915», riferentesi a sua volta ai rifiuti speciali di cui all’art. 2, punti 1), 3), 4), e 5), del ricordato quarto comma, del D.P.R. n. 915/1982 (residui derivanti da lavorazioni
industriali, da attività agricole, artigianali, commerciali e di servizi, che per quantità e qualità non fossero inizialmente assimilabili ai rifiuti urbani; materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e scavi; macchinari e apparecchiature deteriorati od obsoleti; veicoli a motore, rimorchi e simili fuori uso; residui dell’attività di trattamento dei rifiuti, rimanendo pertanto escluso il punto 2), relativo ai rifiuti provenienti da ospedali, case di cura ed affini, non assimilabili a quelli urbani); venivano in tal modo assimilati ai rifiuti urbani sostanzialmente tutti i rifiuti speciali, esclusi quelli ospedalieri e quelli tossici e nocivi.
Successivamente l’art. 21 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, ha fatto venire meno l’assimilazione ope legis dei rifiuti speciali a quelli urbani in regionale, per avere essa affermato, senza applicare i criteri di qualificazione posti dall’art. 62, comma 3, del D.Lgs. n. 507/1993, che tutti i rifiuti prodotti nell’ospedale avevano natura di rifiuti
speciali e per non avere quindi considerato, provvedendo agli opportuni accertamenti, se nelle aree ivi occupate venissero prodotti rifiuti solidi urbani, soggetti all’imposta comunale. Né a tal fine può considerarsi sufficiente l’affermazione che si legge in sentenza circa l’impossibilità di separare i rifiuti speciali da quelli urbani, atteso che essa non appare il frutto di un accertamento di fatto, ma è sostenuta in astratto in modo del tutto immotivato, non fornendo il giudice a quo adeguate ragioni e riferimenti in fatto a fondamento di tale asserzione.
Nei limiti sopra precisati il ricorso va pertanto accolto, dichiarandosi assorbite le ulteriori censure; la sentenza impugnata è quindi cassata con rinvio della causa ad altra Sezione della Commissione tributaria regionale della Puglia, che si atterrà, nel decidere, ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio”.
G) La Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 23390 del 04 novembre 2009 ha stabilito il seguente principio di diritto in tema di TARSU dovuta anche sui magazzini:
“In tema di Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, dalla determinazione della superficie tassabile sono escluse solo le porzioni di aree dove, per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione, si formano di regola rifiuti speciali tossici o nocivi in entità rilevante, ivi compresi quelli derivanti da lavorazioni industriali, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori dei rifiuti stessi in base alle norme vigenti.
Invece, non sono esclusi i locali e le aree destinati all’immagazzinamento o alla cessione dei prodotti finiti, i quali rientrano nella previsione di generale tassabilità a qualunque uso siano adibiti”.
CASO N. 58
PROCESSO TRIBUTARIO
DEPOSITO DOCUMENTI ED ECCEZIONI
A) La Corte di Cassazione, Sezione trib., con la sentenza n. 2787 del 2006, ha stabilito che: “In tema di contenzioso tributario, l’art. 58 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato D.Lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1.
Tale termine, anche in assenza di espressa previsione legislativa, deve ritenersi di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie (rispetto al diritto di difesa e del principio del contraddittorio): con la conseguenza che resta inibito al giudice di appello fondare la propria decisione sul documento tardivamente prodotto anche nel caso di rinvio meramente “interlocutorio” dell’udienza su richiesta del difensore, o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva, essendo la sanatoria a seguito di acquiescenza consentita con riferimento alla forma degli atti processuali e non anche relativamente all’osservanza dei termini perentori (art. 153 c.p.c.)”.
La suddetta interpretazione, ultimamente, è stata confermata dalla Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza n. 12396 del 21 aprile 2009, depositata il 27 maggio 2009.
B) La Corte di Cassazione, Sez. trib., con la recente sentenza n. 10713/09 del 15 aprile 2009, depositata l’11 maggio 2009, ha precisato che: “Il principio del processo tributario secondo cui il giudice, nel valutare la legittimità dell’atto, è vincolato, ai motivi di opposizione ed alle contrapposte ragioni dell’Ufficio non elimina per il giudicante la possibilità che costituisce estrinsecazione ineliminabile del potere giurisdizionale e della soggezione del giudice soltanto alla legge di individuare sulla base dei fatti dedotti dalle parti, la norma di legge applicabile nel caso concreto e, quindi, di interpretarla, attribuendo ad essa il contenuto ed il significato che ritenga più rispondenti.
Il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) implica, infatti, che il giudice deve porre a base della decisione i fatti adotti dalle parti e non può pronunciare oltre le loro richieste e pretese, ma anche non incide sul potere di interpretare e qualificare giuridicamente i fatti medesimi e di individuare le norme regolanti la fattispecie ed i presupposti di fatto, nell’ambito di quelli dedotti dalle parti, in presenza dei quali esse possono o non possono operare (Cass. n. 16809 del 2008; Cass. n. 15496 del 2007)”.
C) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza n. 17210/09, depositata il 23 luglio 2009, ha precisato che:
1. la verifica dell’ente locale, consentita implicitamente, consente di ritenere superate le eccezioni sugli eventuali vizi procedurali: l’accesso sarà, quindi, legittimo sulla base della collaborazione tra ente locale e cittadino;
2. in caso di omissione degli adempimenti previsti dalla legge, il contribuente si potrà opporre all’accesso senza incorrere in alcuna sanzione.
D) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con una serie di pronunce, ha ribadito che, anche in tema di contenzioso tributario, l’indicazione di specifici motivi di impugnazione costituisce un requisito essenziale dell’atto di appello, posto che la relativa funzione è proprio quella di indicare esattamente i limiti della devoluzione e che, a tal fine, l’atto deve essere formulato con un grado di specificità tale da consentire sia l’individuazione dei capi del provvedimento contestato in discussione sia le ragioni, di fatto e di diritto, addotte per chiedere la loro eliminazione, senza che possa bastare, a tal fine, il mero richiamo alle difese ed alle argomentazioni già svolte nel precedente grado di giudizio (Corte di Cassazione, Sez. trib., sentenza n. 8640 del 09 aprile 2009; Cass. n. 11989 del 2006; Cass. n. 12589 del 2004; Cass. n. 3936 del 2002).
E) Da ultimo, la Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 21446/09 del 08 luglio 2009, depositata il 09 ottobre 2009, ha stabilito quanto segue:
“A riguardo, si deve sottolineare che questa Corte con orientamento assolutamente consolidato ha affermato il principio secondo il quale il processo tributario tende all’accertamento sostanziale del rapporto controverso e l’atto di accertamento costituisce il “veicolo di accesso” al giudizio di merito sul rapporto, (cfr Cass. n. 1 1273/91). Ne consegue che, soltanto ove esso sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e di precludere l’esame del merito del rapporto tributario, come potrebbe avvenire in ipotesi di difetto assoluto o di totale carenza di motivazione, il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, ostandovi altrimenti il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice tributario di avvalersi dei propri poteri valutativi ai fini della decisione. Inoltre, “il giudizio che si svolge davanti alle Commissioni è un giudizio di merito a cognizione piena e commissioni tributarie, alle quali il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 attribuisce larghi poteri istruttori, possono acquisire “aliunde” gli elementi di decisione, prescindendo dagli accertamenti dell’ufficio, ed, ai fini della decisione medesima, sono dotate di ampio potere estimativo, anche sostitutivo, nel senso che possono sostituire la propria valutazione a quella operata dall’ufficio (cfr tra le tante Cass. n. 5776/00). Ed invero, il principio secondo cui le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio d’impugnazione dell’atto, si che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell’atto, non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa fiscale, ne’ l’esercizio di poteri cognitori d’ufficio, non polendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d’impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità. (Cass. n. 22932/05)”.
F) Occorre precisare che il divieto di utilizzazione dei documenti non esibiti dal contribuente in sede contenziosa, rappresentando un limite al diritto di difesa, ricorre qualora ad una precisa richiesta da parte del Fisco sia seguito il rifiuto del contribuente, e non anche nel caso in cui la mancata esibizione derivi da una mancata e specifica richiesta.
Quanto sopra è stato ulteriormente confermato dalla Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 22765 del 28 ottobre 2009, che ha stabilito il seguente principio di diritto:
“Infatti questa Corte ha più volte affermato che il divieto di utilizzo in sede giudiziaria di documenti non esibiti in sede amministrativa (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52) costituisce un limite all’esercizio dei diritti di difesa e dunque si giustifica solo in quanto costituiscano il rifiuto di una documentazione specificamente richiesta dagli agenti accertatori.
La giurisprudenza di questa Corte ammette che il divieto di utilizzare documenti scatti “non solo nell’ipotesi di rifiuto (per definizione “doloso”) dell’esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere o sottragga all’ispezione i documenti in suo possesso, ancorché non al deliberato scopo di impedirne la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative ecc.) e, quindi, per colpa” (Cass. 26 marzo 2009, n. 7269).
Esige però, in conformità alla lettera della legge, che sussista una specifica richiesta degli agenti accertatori, non potendo costituire “rifiuto” la mancata esibizione di un qualcosa che non venga richiesto (Cass. 19 aprile 2006, n. 9127).”
G) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con l’importante sentenza n. 22769 del 28 ottobre 2009, in tema di assolvimento dell’onere probatorio, ha stabilito il seguente principio di diritto:
“In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, perché tali poteri sono meramente integrativi (e non esonerativi) dell’onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra parte (Cass. n. 2847 del 2006, n. 10267 del 2005, n. 4040 e n. 8439 del 2004, ex pluribus).
Alla stregua di tale principio è corretta la sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che l’appello andava rigettato in assenza di qualsiasi prova, attese altresì le doglianze generiche in ordine al negato rilievo probatorio della documentazione extra contabile, mai messa peraltro a disposizione della commissione di primo e secondo grado, di talché gli elementi probatori, ancorché presuntivi, “venivano a mancare di quel carattere di gravità, univocità e rilevanza che debbono contraddistinguerli per addivenire a livello di prova”.
CASO N. 59
COMPORTAMENTO CONCLUDENTE
A) La Corte di Cassazione, Sezione trib., in tema di valenza ed efficacia del comportamento concludente, con varie sentenze ha stabilito, schematicamente, i seguenti principi:
1. la modalità di tenuta delle scritture contabili può costituire comportamento concludente ai fini di individuare il regime contabile per l’IVA;
2. può costituire comportamento concludente l’esposizione come ricavi dei corrispettivi fatturati in relazione agli stati di avanzamento dei lavori di costruzione di immobili (sentenza n. 22872 del 2006);
3. la concludenza può desumersi dalla combinazione di comportamenti quali la dichiarazione di un volume d’affari superiore a quello previsto per il regime forfettario;
4. la concludenza può anche essere ricavata dal comportamento del contribuente coerente con un certo regime dell’IVA (sentenza n. 11455 del 2001);
5. in ogni caso, la valutazione del comportamento concludente sarà sindacabile in Cassazione solo per contraddittorietà, carenza o illogicità della motivazione (sentenza n. 2937 del 2007).
B) Ultimamente, però, in tema di IVA di gruppo, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 17708 del 2009, ha stabilito che:
– all’IVA di gruppo, secondo quanto disposto dall’art. 4 del DPR n. 442/97, non è mai applicabile il principio del comportamento concludente;
– la normativa relativa all’IVA di gruppo, così come prevista dall’art. 73, comma 3, DPR n. 633/72, per la sua legittima applicazione necessita sempre di una dichiarazione espressa.
CASO N. 60
DIRITTO DI RIVALSA IVA SUL CONSUMATORE FINALE
In tema di IVA, il diritto di rivalsa sul consumatore finale, da parte dei soggetti passivi di imposta, è obbligatorio e nonostante ciò la Corte di Cassazione è ferma nel ritenere che “spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alla domanda proposta dal consumatore finale nei confronti del professionista o dell’imprenditore che abbia effettuato la cessione del bene o la prestazione del servizio per ottenere la restituzione delle maggiori somme addebitategli in via di rivalsa per effetto dell’applicazione di un’aliquota asseritamente superiore a quella prevista dalla legge: poiché, infatti, soggetto passivo dell’imposta è esclusivamente colui che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi, la controversia in questione non ha ad oggetto un rapporto tributario tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, ma un rapporto di natura privatistica tra soggetti privati, che comporta un mero accertamento incidentale in ordine all’ammontare dell’imposta applicata in misura contestata” (in tal senso: Cass. n. 2775/2007, 2686/2007, 6632/2003, 1995/2003, 10693/2002 ed, ultimamente, Sezioni Unite, sentenza n. 15031 del 28 aprile 2009, depositata il 26 giugno 2009).
In definitiva, non basta che su una controversia si proietti il riflesso di una norma tributaria perché la stessa sia sottratta alla giurisdizione del giudice ordinario, ma occorre che la controversia tragga origine da un atto “qualificato” (art. 19 D.Lgs. n. 546/1992) e che tale atto sia riconducibile all’autorità fiscale (art. 10 D.Lgs. n. 546 cit.), in maniera che la controversia abbia ad oggetto direttamente il rapporto tributario e non soltanto gli effetti indiretti di una norma fiscale.
In definitiva, secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione, almeno sino ad oggi, il tema della competenza sulla rivalsa IVA spetta sempre al giudice ordinario (oltre alle succitate sentenze, si citano le sentenze n. 13446 del 13 dicembre 1991, n. 8783 del 02 giugno 2001, n. 5427 del 28 aprile 2000, n. 12063 del 2007 delle Sezioni Unite, n. 9191 del 04 maggio 2005 delle Sezioni Unite e n. 1147 del 07 novembre 2000 sempre delle Sezioni Unite).
CASO N. 61
CONCETTO DI AREA EDIFICABILE
A) A seguito dei notevoli contrasti legislativi, dottrinari e giurisprudenziali, il legislatore è dovuto intervenire per dare una definizione unitaria di area edificabile.
In particolare, la suddetta nozione è stata fornita con l’art. 36 del D.L. n. 223 del 04 luglio 2006, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 248 del 04 agosto 2006, secondo cui “….un’area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo”.
Secondo la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 14507 del 30 maggio 2008, trattasi di norma interpretativa avente efficacia retroattiva; ancora, la Corte ha affermato che “un’area è da considerare edificabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo” (Cassazione, Sezioni Unite, sentenze n. 25505/2006 e n. 25506/2006).
B) Successivamente, la Corte di Cassazione, Sezione trib., con la sentenza n. 10713/09 del 15 aprile 2009, depositata l’11 maggio 2009, ha ulteriormente ristretto il concetto di area edificabile, nel senso che il terreno destinato a centro sportivo è da considerare agricolo anche se ha un limitato indice di edificabilità.
Infatti, con la succitata sentenza, la Corte ha precisato quanto segue:
“In proposito si è, infatti, costantemente ritenuto (Cass. S.U. n. 192 del 2001; Cass. n. 18314 del 2007; Cass. n. 13199 del 2006), a tal fine, che, attesa la rigida dicotomia fra area edificabile e non, introdotta senza possibilità di un tertium genus della norma citata, norma poi dichiarata incostituzionale (Corte Cost. sent. N. 348 del 2007), ma senza incidenza sulla distinzione che qui interessa, tra suoli edificabili e non edificabili (Cass. n. 3022 del 2008) un’area è da ritenere edificabile quando e per il solo fatto che tale area risulti classificata dagli strumenti urbanistici; che, invece, non può essere considerato edificabile un fondo soggetto ad un vincolo urbanistico di carattere “conformativo”, siccome compreso in Zona destinata a verde pubblico attrezzato, da considerare e valutare come area agricola anche quando fosse possibile realizzare su di esso opere edilizie confacenti allo scopo, costituenti prerogativa dell’ente pubblico che impone il vincolo, non del privato che lo subisce (Cass. n. 13917 del 2007; Cass. n. 26160 del 2006; Cass. n. 24585 del 2006, Cass. n. 2812 del 2006; Cass. n. 23973 del 2004; Cass. n. 11932 del 2001)”.
CASO N. 62
ICI – FABBRICATI –
A) La Corte di Cassazione – Sez. trib., con la sentenza n. 24924 del 10 ottobre 2008, in tema di ICI, ha precisato che: “Di conseguenza, ai fini dell’ICI per “fabbricato” deve intendersi:
a) “l’unità immobiliare iscritta….nel catasto edilizio”;
b) “l’unità immobiliare….che deve essere iscritta” allo stesso catasto;
c) “il fabbricato di nuova costruzione”
– c/1 “a partire dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione” oppure
– c/2 “se antecedente,dalla data in cui comunque è utilizzato”.
La considerazione, alternativa, come precisato da Cass. trib., 23 ottobre 2006 n. 22808, della “data di ultimazione dei lavori di costruzione” ovvero di quella anteriore di utilizzazione del fabbricato di nuova costruzione, di conseguenza, assume rilievo solo per l’ipotesi in cui il fabbricato di nuova costruzione” non sia ancora iscritto al catasto perché tale iscrizione realizza, di per sé, il presupposto principale (“unità immobiliare iscritta”) considerato dalla norma sufficiente per assoggettare l’immobile all’imposta comunale dovuta per i fabbricati (cfr. Cass. trib., 23 giugno 2006 n. 14673, per la quale “la nozione di immobile urbano assoggettato ad ICI appare sostanzialmente coincidente con quella di immobile suscettibile accatastamento”)”.
Di conseguenza, l’ICI sui “beni futuri” potrebbe violare i principi di civiltà giuridica.
B) In tema di Ici, l’edificabilità di un’area ai fini della determinazione della base imponibile, fondata sul valore venale, deve essere desunta dalla qualificazione a essa attribuita dal Prg, adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione degli strumenti attuativi.
Questo il principio espresso dalla sentenza della Cassazione, Sezione tributaria, 14 ottobre 2009 n. 21764, relativo all’interpretazione dell’articolo 2, comma 1, lettera b), del Dlgs 504/1992, istitutivo dell’Ici, conforme a quanto disposto dall’articolo 11-quaterdecies, comma 16, del Dl 203/2005, convertito dalla legge 248/2005, che risolve il contenzioso tributario, relativo all’edificabilità di un’area.
C) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 19638 del 09 giugno 2009, depositata l’11 settembre 2009, ha stabilito il seguente principio:
“In conclusione, la norma di diritto applicabile a contrario alla fattispecie controversa è quella che, per modellazione della formula del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 2, comma 1, lett. a), e per evidenziazione in corsivo dell’integrazione di conio giurisprudenziale, si presenta così:
“Ai fini dell’imposta di cui all’art. 1 dell’ICI:
a) per fabbricato si intende l’unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano, considerandosi parte integrante del fabbricato l’area occupata dalla costruzione e quell’area che, per espressa dichiarazione del soggetto passivo dell’imposta esposta nella denuncia iniziale, o nella denunzia annuale di variazione, e a prescindere dalla previsione della sua edificabilità contenuta negli strumenti urbanistici comunali, ne costituisce pertinenza…”.
Con la suddetta pronuncia la Suprema Corte ha confermato la validità del principio della destinazione di fatto di un’area come pertinenza, ma ha posto a carico del contribuente l’onere di dichiarare al fisco l’utilizzo dell’immobile.
CASO N. 63
RIMBORSO IVA CHIESTO DAL CESSIONARIO
A) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con le sentenze n. 9668/09 del 07 aprile 2009, depositata il 23 aprile 2009, e n. 9142/09 del 03 marzo 2009, depositata il 17 aprile 2009, ha precisato quanto segue: “Va ricordato che queste Sezioni Unite hanno da tempo (sentenze 19 marzo 1990 n. 2281 e 13 dicembre 1991 n. 13446, da cui ultima gli excepta che seguono) statuito il principio poi ribadito con sentenza 04 giugno 2002 n. 8090 (per la quale “in materia di crediti IVA la giurisdizione tributaria è individuata dall’oggetto della domanda e non dal soggetto titolare del credito; la domanda di pagamento di un credito IVA, contestato dall’Amministrazione, appartiene alla giurisdizione delle Commissioni tributarie”) e con ordinanza (ex art. 375 c.p.c.) 19 novembre 2007 n. 23835 (“l’attribuzione alla giurisdizione tributaria è dalla legge disposta in ragione dell’oggetto della domanda e non dal soggetto titolare del credito, il quale può essere, quindi, il cessionario che assume la stessa posizione riservata al contribuente creditore originario”), da confermare per carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria….”.
B) Inoltre, la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, con la sentenza n. 28024/08 del 21 ottobre 2008, depositata il 25 novembre 2008, ha stabilito il seguente principio di diritto: “Il credito del contribuente per il rimborso dell’imposta sul valore aggiunto, versata in misura superiore al dovuto, si consolida decorsi due anni dal termine per la presentazione della dichiarazione annuale senza che l’Amministrazione finanziaria abbia notificato alcun avviso di rettifica o di accertamento ed è esigibile alla scadenza dei successivi tre mesi.
Pertanto, il termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso decorre a partire da due anni e tre mesi dalla data di presentazione della dichiarazione annuale, non essendo il diritto medesimo esigibile prima del decorso di detto termine (Cass. 19510/03; 15679/04)”.
C) La sentenza della Corte di Giustizia del 16 luglio 2009 (causa c-244/08) impone all’Italia di adeguarsi alle norme comunitarie in tema di rimborsi IVA ad operatori non residenti.
CASO N. 64
CONDONI FISCALI
In tema di condoni fiscali ci sono state varie pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.
A) Ultimamente, la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 109 del 09 aprile 2009, ha stabilito che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 7, della Legge n. 289/2002 riguardante la definizione degli accertamenti degli atti di contestazione, degli avvisi di irrogazione delle sanzioni, degli inviti al contraddittorio e dei processi verbali di constatazione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 79 della Costituzione relativi, rispettivamente al diritto di uguaglianza e alla legge di approvazione di amnistia ed indulto nella parte in cui prevede l’esclusione, ad ogni effetto, della punibilità per i reati tributari in esso elencati, nel caso di perfezionamento della definizione dei processi verbali di constatazione da cui risultano i reati medesimi.
B) La Corte di Cassazione, Sez. trib., con le sentenze n. 6186 del 2006 e n. 15548 del 21 maggio 2009, depositata il 02 luglio 2009, ha ribadito il principio che ”la natura di atto impositivo autonomo, direttamente impugnabile come tale, deve essere negata alla cartella di pagamento allorchè faccia seguito ad un avviso di accertamento, ma non nei casi in cui essa costituisce l’unico atto che consente al contribuente di mettere in discussione la debenza del tributo. In tali casi, infatti, l’atto deve essere qualificato, a prescindere dalla sua formale definizione, come atto di imposizione”.
Inoltre, la Corte di Cassazione, Sez. trib., con la sentenza n. 4129 del 20 febbraio 2009 ha precisato che “Rientra, pertanto, tra le liti pendenti definibili ai sensi dell’articolo 16 della legge finanziaria per il 2003 la controversia avente ad oggetto l’avviso di liquidazione con il quale, sulla base di una diversa interpretazione o qualificazione giuridica dell’atto registrato, l’Amministrazione faccia valere una pretesa fiscale maggiore di quella denunciata dal contribuente o ritenuta dall’ufficio stesso al momento della tassazione provvisoria in sede di registrazione, non essendosi, in tal caso, in presenza di contestazione su di un atto meramente liquidatorio sulla base dei dati forniti dal contribuente” con ciò sconfessando le restrittive tesi dell’Amministrazione finanziaria.
C) Inoltre, la Corte di Cassazione – Sez. trib., con la sentenza n. 24910 del 26 marzo 2008, depositata il 10 ottobre 2008, ha stabilito che il mancato pagamento delle rate successive alla prima non determina l’inefficacia del condono, confermando quanto in precedenza esposto con l’ordinanza n. 6370 del 22 marzo 2006 e con la sentenza n. 22788 del 23 ottobre 2006.
La suddetta tesi è contraria a quanto disposto dall’Amministrazione finanziaria con le circolari n. 22 del 28 aprile 2003 e 41 del 17 settembre 2004.
Inoltre, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14440 dell’08 luglio 2005, ha ritenuto che, ai fini dell’applicazione del condono di cui all’art. 12, l’ufficio non deve rilasciare alcuna attestazione di regolare conclusione della procedura, con la conseguenza che il giudice può procedere direttamente al relativo accertamento semplicemente in base alla documentazione prodotta dalla parte.
D) Inoltre, contrariamente alle tesi della giurisprudenza di merito e della maggior parte della dottrina, la Corte di Cassazione, Sezione tributaria, in diverse sentenze (per tutte, sentenza n. 25240 del 03 dicembre 2005) ha affermato che l’adesione al condono fiscale comporta l’automatico effetto della rinuncia al rimborso dell’IRAP indebitamente corrisposta.
Infatti, secondo i giudici di legittimità, la norma pone il contribuente di fronte ad una libera scelta con trattamenti distinti e che non si intersecano tra loro, sicchè una volta che il contribuente abbia aderito alla sanatoria egli non potrà, appunto, più beneficiare dell’eventuale restituzione dell’IRAP.
E) La Corte di Cassazione, Sez. III Penale, con la sentenza n. 39358 del 24 settembre 2008, depositata il 21 ottobre 2008, ha precisato che, ai fini dell’ammissibilità al condono fiscale ex Legge 27 dicembre 2002 n. 289, devono essere tenute distinte le posizioni della società e dell’amministratore che non può giovarsi del condono se ha avuto formale conoscenza dell’azione penale prima del perfezionamento della procedura di condono societario.
E’ irrilevante che, in tal caso, la Commissione Tributaria abbia ritenuto ammissibile il condono societario nonostante l’inammissibilità maturata in capo all’amministratore, dal momento che la sua sentenza non vincola il giudice penale.
F) Infine, si fa presente che saranno le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ad individuare gli effetti che si potranno verificare nell’ordinamento giuridico italiano in seguito all’applicazione della sentenza della Corte di Giustizia UE che ha dichiarato l’illegittimità del condono IVA.
Infatti, con l’ordinanza n. 22517 del 23 ottobre 2009, la Sez. tributaria della Corte di Cassazione ha rimesso la causa alle Sezioni Unite per la soluzione della questione giuridica relativa all’applicazione della sospensione dei termini per l’impugnazione stabilita dall’art. 16 della Legge n. 289/2002 (Definizione delle liti fiscali pendenti).
G) La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15242 del 09 giugno 2009, depositata il 30 giugno 2009, ha stabilito, in tema di condono fiscale, che la speciale procedura prevista dall’art. 12 della Legge n. 289/2002 è applicabile anche ai ruoli finalizzati alla riscossione di entrate non aventi natura tributaria, ciò risultando in base alla norma interpretativa di cui all’art. 1, comma 2-decies, del D.L. n. 143/2003, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 212/2003.
H) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 21021 del 30 settembre 2009 ha precisato che l’applicazione diretta dei principi costituzionali di uguaglianza, di legalità, di imparzialità amministrativa e di capacità contributiva comporta che, anche in mancanza di un’espressa previsione legislativa, il valore accertato dall’Amministrazione finanziaria ai fini applicativi di un’imposta (IRPEF) vincola l’ufficio anche con riferimento all’applicazione di altri tributi (come ad esempio l’IVA).
Tale principio si rende applicabile solo nelle situazioni in cui i fatti economici siano i medesimi e le singole leggi di imposta non stabiliscano differenti criteri di valutazione, senza che assuma alcun rilievo la circostanza che per la prima imposta il contribuente abbia usufruito del condono fiscale, rimanendo gli effetti di tale beneficio circoscritti nell’ambito esclusivo dell’imposta per cui è stato richiesto.
Pertanto, sempre secondo i principi della succitata sentenza, non ha pregio la doglianza di un contribuente cui viene notificato un avviso di accertamento parziale ai fini dell’IVA e le cui contestazioni sono fondate sui rilievi emersi ai fini dell’accertamento IRPEF subìto dal medesimo, che eccepisce la nullità dell’atto sulla base del fatto che aveva aderito al condono ai fini delle imposte dirette.
CASO N. 65
PROVENTI DA USURA
Con l’interessante ordinanza n. 19618, dell’11 settembre 2009, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha chiesto l’intervento della Corte di Giustizia al fine di comprendere se i redditi derivanti da usura debbano o meno essere assoggettati ad IVA.
La singolare questione trae origine da un accertamento operato dall’Agenzia delle Entrate di Rossano nei confronti di un commerciante per aver questi sottratto ad imponibile IVA un’ingente somma di denaro.
Più esattamente, dopo essersi visto contestare dall’Agenzia delle Entrate l’omissione di corrispettivi per un imponibile pari a £. 629.220.964, il commerciante ha dichiarato che quelle somme non provenivano dall’attività commerciale ma da quella di usuraio e perciò potevano essere considerate esenti dall’IVA.
Infatti, a dire del contribuente per le somme derivanti dalla propria attività illecita avrebbe trovato applicazione l’art. 10 (rubricato “operazioni esenti da imposta”) del D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633 che al primo comma, n. 1, dispone quanto segue «Sono esenti dall’imposta: … le prestazioni di servizi concernenti la concessione e la negoziazione di crediti, la gestione degli stessi da parte dei concedenti e le operazioni di finanziamento; l’assunzione di impegni di natura finanziaria, l’assunzione di fideiussioni e di altre garanzie e la gestione di garanzie di crediti da parte dei concedenti; le dilazioni di pagamento…».
Già con sentenza n. 24471 del 17 novembre 2006, la Corte di Cassazione aveva stabilito che, in forza dell’articolo 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, le attività illecite dovessero considerarsi soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all’IVA e che, in ogni caso, l’attività illecita dovesse essere soggetta all’IVA.
Nel caso sottoposto all’attenzione dei Supremi Giudici ed oggetto del presente lavoro, trattasi, però, di attività illecita costituita dal prestito ad usura ossia di attività illecita riconducibile, secondo i Giudici di Piazza Cavour, ai “prestiti in denaro” compresi tra le prestazioni di servizi costituenti operazioni imponibili in base agli artt., 1 e 3, numero 3, del D.P.R. n. 633/1972 che, a loro volta, sono esenti dall’imposta in forza del successivo art. 10, n. 1 qualora vengano inquadrati nelle “operazioni di finanziamento” o “concessione di credito”.
A tal proposito, i Giudici di legittimità hanno evidenziato che la Corte di Giustizia ha in più occasioni chiarito che il principio della neutralità fiscale fissato dall’art. 2, della direttiva del Consiglio CEE (17.05.1977, n. 388) non consente in materia di riscossione dell’IVA una distinzione generale tra operazioni lecite ed operazioni illecite quando le due attività sono in concorrenza tra loro.
Ebbene, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento ha ritenuto che «nell’ambito delle prestazioni di servizi costituite dai prestiti in denaro, astrattamente comprese, come si è visto, nel campo di applicazione dell’imposta, il prestito ad usura, integrante un’attività illecita, non può escludersi si ponga in concorrenza con la corrispondente attività lecita di concessione di prestiti in denaro (considerata dalla legislazione nazionale esente dall’IVA quando possa considerarsi “operazioni di finanziamento”)»
Da un lato vi è, infatti, come già detto, la direttiva del Consiglio CEE n. 388 del 17 maggio 1997, che sancisce il principio di neutralità dell’IVA, secondo il quale è irrilevante la distinzione tra operazioni lecite ed operazioni illecite, quando non sia esclusa qualsiasi forma di concorrenza tra un settore economico lecito ed un settore illecito; dall’altra parte si potrebbe considerare l’attività di usuraio in concorrenza con i servizi di credito prestati dalle banche e quindi esente dall’IVA in virtù della Sesta direttiva CEE sull’imposizione IVA, che stabilisce l’esenzione da tale imposta per le operazioni di concessione, negoziazione e gestione dei crediti.
Alla luce di quanto su esposto, secondo i Giudici di Piazza Cavour si impone una valutazione pregiudiziale ex art. 234 del Trattato CE, che sospende il processo al fine di dirimere una questione di non poco conto. Spetta, ora, ai Giudici europei stabilire se i redditi usurai siano o meno esenti dall’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.
CASO N. 66
ASSOCIAZIONI NON RICONOSCIUTE
-RESPONSABILITA’-
In futuro, sarà più difficile per il fisco recuperare le imposte evase dalle associazioni non riconosciute.
Infatti, il rappresentante legale non è automaticamente responsabile dei tributi non versati all’erario, in quanto sarà il fisco a dover provare, al di là della qualifica formale, il coinvolgimento del vertice nelle irregolarità con la dichiarazione o con le fatture.
Quanto sopra è stato precisato dalla Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 19486 del 03 luglio 2009, depositata il 10 settembre 2009, che ha ribadito il seguente principio di diritto:
“La responsabilità personale e solidale, prevista dall’art. 38 c.c., di colui che agisce in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta non è collegata alla mera titolarità della rappresentanza dell’associazione, bensì all’attività negoziale concretamente svolta per conto di essa e risoltasi nella creazione di rapporti obbligatori fra questa e i terzi.
Tale responsabilità non concerne, neppure in parte, un debito proprio dell’associato, ma ha carattere accessorio, anche se non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria dell’associazione stessa, con la conseguenza che l’obbligazione, avente natura solidale, di colui che ha agito per essa è inquadrabile fra quelle di garanzia “ex lege”; ne consegue, altresì, che chi invoca in giudizio tale responsabilità ha l’onere di provare la concreta attività svolta in nome e nell’interesse dell’associazione (Cass. Civ. sentenze n. 5089 del 1998, n. 8919 del 2004), non essendo sufficiente la sola prova in ordine alla carica rivestita all’interno dell’ente” (confronta, ex multis, Cass. Civ. sentenze n. 2471 del 2000, n. 26290 del 2007 e, recentemente, n. 25748 del 2008).
CASO 67
CREDITO D’IMPOSTA INVESTIMENTI
Il termine del 28 febbraio 2003 previsto per inviare telematicamente il modello CVS, al fine di beneficiare del bonus investimenti nelle aree svantaggiate (art. 8 della Legge n. 388/00), è da intendersi perentorio.
Pertanto, il mancato rispetto del suddetto termine comporta la decadenza della richiesta agevolazione fiscale.
Quanto sopra è stato stabilito dalla Corte di Cassazione – Sez. Civile V – con la sentenza n. 19627 del 26 maggio 2009, depositata l’11 settembre 2009, che in merito ai due principali quesiti di diritto ha dato le seguenti risposte:
“7.4.2. La risposta al primo quesito di diritto
Per la confezione della norma giuridica, che sia idonea a sussumere la fattispecie controversa in relazione al primo quesito di diritto, si presentano, in quanto richiamate e variamente utilizzate dalle parti e dalla CTR, come potenziali fonti fornitrici del materiale linguistico, le seguenti disposizioni normative:
a) l’art. 8.1 L. 23 dicembre 2000, n. 388: “Ai soggetti titolari di redditi d’impresa …, che (tra il 2000 e il 2006) effettuano nuovi investimenti (nelle aree territoriali individuate da….) è attribuito un credito d’imposta entro la misura …”;
b) l’art. 8.5. L. 23 dicembre 2000, n. 388: “Il credito d’imposta … va indicato nella relativa dichiarazione dei redditi”;
c) l’art. 1.1.a) 1-2 D.L. 12 novembre 2002, n. 253, non convertito: “Al fine di assicurare una corretta applicazione delle disposizioni in materia di agevolazione per gli investimenti nelle aree svantaggiate di cui all’articolo 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, e successive modificazioni, nonché di favorire la prevenzione dì comportamenti elusivi, di acquisire l’amministrazione i dati necessari per adeguati monitoraggi e pianificazioni dei flussi di spesa, occorrenti per assicurare pieni utilizzi dei contributi, attribuiti nella forma di crediti di imposta:
a) i soggetti che hanno conseguito il diritto al contributo anteriormente alla data dell’8 luglio 2002 comunicano all’Agenzia delle entrate, a pena di decadenza dal contributo conseguito automaticamente, i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati e, in particolare, quelli concernenti le tipologie degli investimenti, gli identificativi dei contraenti con i quali i soggetti interessati intrattengono i rapporti necessari per la realizzazione degli investimenti, le modalità di regolazione finanziaria delle spese relative agli investimenti, l’ammontare degli investimenti, dei contributi fruiti e di quelli ancora da utilizzare, nonché ogni altro dato utile ai predetti fini. Tali dati sono stabiliti con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate, emanato entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, con il quale è altresì approvato il modello di comunicazione e stabilito il termine per la sua effettuazione, comunque non successivo al 31 gennaio 2003”;
b) l’art. 62.1 .a) 1-2 L. 27 dicembre 2002, n. 289: “Al fine di assicurare una corretta applicazione delle disposizioni in materia di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate di cui all’articolo 8 della legge 23 dicembre 2000, n. 388….:
a) i soggetti che hanno conseguito il diritto al contributo anteriormente alla data dell’8 luglio 2002 comunicano all’Agenzia delle entrate, a pena di decadenza dal contributo conseguita automaticamente, i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati e, in particolare, quelli concernenti le tipologie degli investimenti, gli identificativi dei contraenti con i quali i soggetti interessati intrattengono i rapporti necessari per la realizzazione degli investimenti, le modalità di regolazione finanziaria delle spese relative agli investimenti, l’ammontare degli investimenti, dei contributi fruiti e di quelli ancora da utilizzare, nonché ogni altro dato utile ai predetti fini. Tali dati sono stabiliti con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate, emanato entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con il quale sono altresì approvati il modello di comunicazione e il termine per la sua effettuazione, comunque non successivo al 28 febbraio 2003”;
b) l’art. 62.7 L. 27 dicembre 2002, n. 289: “Sono abrogati gli articoli 1 e 2 del decreto-legge 12 novembre 2002, n. 253; restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base delle predette disposizioni”.
Dalla rassegna delle disposizioni riprodotte emerge che il legislatore ha posto a carico di alcuni soggetti, beneficiari di un’agevolazione tributaria sotto forma di attribuzione del diritto di eredito d’imposta, l’onere di trasmettere all’ufficio tributario competente la conoscenza di dati, che vengono precisamente elencati (art. l.l.a) 1 D.L. 12 novembre 2002, n. 253, e art. 62.1.a) 1 L. 27 dicembre 2002, n. 289), salvo gli ulteriori dati utili, che siano eventualmente stabiliti con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, che approva anche il modello per la comunicazione, per la cui effettuazione fissa un termine, avente, comunque, come giorno finale massimo, il 31 gennaio 2003, in base all’art. 1.1.a).2 DL 12 novembre 2002, n. 253, differito, poi, in base all’art. 62.1.a).2 L. 27 dicembre 2002, n. 289, al 28 febbraio 2003.
Si deve precisare che il potere attribuito al Direttore dell’Agenzia delle entrate di “stabilire” i dati da comunicare non può riguardare che i dati “utili ulteriori” rispetto a quelli già fissati dal legislatore, perché, oltre che illogico, sarebbe contrario al sistema di ripartizione del potere tra autorità legislativa e autorità amministrativa ritenere che le specie dei dati fissate dal legislatore possano essere sostituite con specie diverse indicate in un provvedimento amministrativo.
Quanto al periodo di tempo a disposizione del contribuente interessato all’agevolazione per l’adempimento dell’onere di comunicazione di dati, esso, per volontà del legislatore, è iniziato il giorno 13 novembre 2002 ed è terminato il 28 febbraio 2003; infatti, la scadenza del termine, inizialmente fissata a1 massimo al 31 gennaio 2003, dall’art. 62.1.a).2 L. 27 dicembre 2002, n. 289, è stata sostanzialmente differita, ad opera dell’art. 62.7 L. 27 dicembre 2002, n. 289, attraverso l’abrogazione della disposizione precedente, ma con la salvezza degli effetti prodotti dai comportamenti adottati in base ad essa. Sulla determinazione della durata del periodo di adempimento dell’onere di comunicazione non esercita alcuna influenza l’esercizio del potere attribuito al Direttore dell’Agenzia e, quindi, l’adozione, che si sarebbe dovuta realizzare entro trenta giorni, decorrenti, prima, dalla data di entrata in vigore dell’ art. 1.1.a). 1 DL 12 novembre 2002, n. 253, e, poi, dalla data dell’entrata in vigore dell’art. 62.1.a).1 L. 27 dicembre 2002, n. 289.
Di fatto, tale provvedimento è stato adottato, per quanto ne riferiscono le parti e la sentenza d’appello, il 24 gennaio2003. Afferma, inoltre, la Società resistente, che «il software necessario per la compilazione del modello fu reso disponibile all’utenza mediante pubblicazione sul sito Internet del Ministero delle Finanze in data 30 gennaio 2003, mentre quello necessario per il relativo invio telematico potette essere “scaricato” addirittura il 12 febbraio 2003». Ora, tutti questi fatti, in quanto attinenti a modalità non preclusive dell’esercizio del potere di adempiere l’onere di comunicazione previsto dalla legge entro il periodo, con scadenza decadenziale al 28 febbraio 2003, della durata di 107 giorni (17 novembre 2002, 31 dicembre 2002, 31 gennaio 2003 e 28 febbraio 2003), non possono produrre l’effetto di far decorrere il periodo dal 24 gennaio 2003 (data di adozione del provvedimento del Direttore dell’Agenzia) o dal 30 gennaio (data della sua pubblicazione) o dal 12 febbraio 2003 (data della disponibilità del software di trasmissione telematica dei dati).
In sostanza, ne deriva che fui dal 13 novembre 2002, data di pubblicazione del DL 12 novembre 2002, n. 253, sulla Gazzetta ufficiale n. 266 del 2002, il contribuente interessato è stato posto nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità della scadenza del termine per adempiere il suo onere di comunicazione entro il 31 gennaio 2003, divenuto medio tempore, il 28 febbraio 2003. Quest‘ultima data, prevista dal legislatore come data comunque non superabile con una diversa previsione da parte del Direttore dell’Agenzia delle entrate, è stata confermata dall’autorità amministrativa nel suo provvedimento del 24 gennaio 2003.
In conclusione, le norme, che si traggono dalle disposizioni normative e che sono idonee ad operare la sussunzione della fattispecie qui in controversia a seconda che la comunicazione sia fatta prima o dopo il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, sono condensabili nelle seguenti formule:
1) prima dell’adozione del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, «il titolare, alla data dell’8 luglio 2002, del credito d‘imposta ex art. 8.1 L. 23 dicembre 2000, n. 388, (primo destinatario della norna) deve comunicare entro il termine decadenziale del 28 febbraio 2003 (contenuto nella norma) all’Agenzia delle entrate (secondo destinatario della norma) i dati accorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati, indicati nell’art. 62.1.a) L. 27 dicembre 2002, n. 289, (oggetto della norma)»;
2) la norma diventa parzialmente diversa, dopo l’adozione del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, quanto all’oggetto, che può essere arricchito con i dati “utili ulteriori” eventualmente stabiliti in sede provvedimentale amministrativa, e, quanto al contenuto, cioè al comportamento adempitivo dell’onere che, da modalmente libero, diviene informalmente vincolato; la norma, in conclusione, suona così: “il titolare, alla data dell’8 luglio 2002, del credito d’imposta ex art. 8 L. 23 dicembre . 2000, n. 388, (primo destinatario della norma) deve comunicare informaticamente entro il termine decadenziale del 28 febbraio 2003 (contenuto della norma) all’Agenzia delle entrate (secondo destinatario della norma) i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati, indicati nell’art. 62.1.a) L. 27 dicembre 2002, n. 289, e i dati utili ulteriori eventualmente indicati da provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate (oggetto della norma)”.
Le considerazioni appena esposte conducono a fornire al primo quesito di diritto una risposta positiva: il termine del 28 febbraio 2003 è sempre, sia prima sia dopo l’adozione del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, un termine decadenziale e, poiché la Società non lo ha rispettato, dal momento che la sua comunicazione è stata effettuata solo il 16 maggio 2003, essa è decaduta dal beneficio dell’agevolazione del credito d’imposta prevista dall’art. 8.1 L. 23 dicembre 2000, n. 388, ed è illegittima la sentenza d’appello che ha deciso in senso contrario. All’identico risultato si arriverebbe, comunque, nel caso di specie, anche accogliendo l’erronea tesi della Società resistente, secondo cui il termine di 60 giorni, garantito dall’art. 3.2 L. 27luglio 2000, n. 212, dovrebbe decorrere dal momento in cui si possa esercitare il potere, di adempiere l’onere di comunicazione, cioè, nell’ipotesi più favorevole alla Società, dal 12 febbraio 2003; infatti, resterebbe sempre il fatto che la comunicazione effettuata il 16 maggio 2003 sarebbe comunque tardiva.
7.4.3. La risposta al secondo quesito di diritto
Per la confezione della nonna giuridica, che sia idonea a sussumere la fattispecie controversa in relazione al secondo quesito di diritto, si presentano come potenziali fonti fornitrici del materiale linguistico le seguenti disposizioni normative:
a) tutte le disposizioni che si sono richiamate nel § 7.4.2 dalla lettera a) alla lettera f); g) ad esse si aggiunge ora l’art. 3.2 L. 27 luglio 2000, n. 212, secondo il quale «le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimento di attuazione in essi espressamente previsti».
L’interpretazione che s’è fornita della normativa vigente in ordine alla questione della natura del termine del 28 febbraio 2003 agevola anche la soluzione del secondo quesito di diritto.
Infatti, la successione delle disposizioni contenute nell’art. 1.1.a).2 D.L. 12 novembre 2002, n. 253, nell’art. 62.1.a).2 L. 27. dicembre 2002, n. 289, e nell’art. 62.7 L. 27 dicembre 2002, n. 289, hanno prodotto l’effetto di mettere a disposizione del contribuente interessato all’agevolazione tributaria del credito d’imposta previsto dall’art. 8.1 L. 23 dicembre 2000, n. 388, un termine decadenziale di ben 107 giorni, disciplinato secondo le due norme che si sono individuate al termine del § 7.4.2. La risposta da dare al quesito è, conseguentemente, positiva.
7.4.4. L’irrilevanza dell’indicazione del credito d’imposta nella dichiarazione dei redditi per il 2002
Per completare la motivazione relativa al rigetto dell’eccezione d’inammissibilità del ricorso per Cassazione, che s’è esposta nel § 6.2, si può precisare, ora che s’è ricostruito lo stato della normativa sul regime dell’onere di comunicazione del contribuente interessato all’agevolazione ex art, 8.1 L. 23 dicembre 2000, n. 388, che, al fine di stabilire se la contribuente sia incorsa in decadenza oppure no, è del tutto irrilevante il fatto che essa abbia adempiuto al vincolo previsto dall’art. 8.5.1 L. 23 dicembre 2000, n. 388, secondo cui «Il credito d’imposta … va indicato nella relativa dichiarazione dei redditi».
Si tratta, infatti, di un onere ulteriore e diverso, rispetto a quello regolato dall’art. 1.1.a).1 DL 12 novembre 2002, n. 253, e dall’art. 62.1.a).1 L. 27 dicembre 2002, n. 289: l’adempimento del secondo è condizione necessaria per acquisire il diritto al credito d’imposta, mentre l’adempimento del primo è condizione necessaria per farlo valere nel computo dell’imposta sui redditi. Ma è ben evidente, che è del tutto inutile avanzare, in sede di dichiarazione dei redditi, un credito d’imposta che non è mai stato acquisito per la già intervenuta decadenza nell’adempimento dell’onere dì comunicazione.
8. Le precedenti considerazioni conducono all’accoglimento del ricorso e alla cassazione della sentenza impugnata”.
Le continue modifiche legislative in tema di crediti d’imposta hanno creato grossi problemi interpretativi ed applicativi ai contribuenti ed ai loro professionisti, per cui è auspicabile un cambio di indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione.
CASO N. 68
EQUITA’
Il giudice tributario è tenuto a fornire sempre le motivazioni dei criteri e delle ragioni che lo hanno indotto a ridurre i ricavi ed i corrispettivi accertati dal fisco e non può decidere la controversia secondo equità, come stabilito dalla Corte di Cassazione – Sez. tributaria – con la sentenza n. 19079 del 01 settembre 2009.
Nel caso in esame, il contribuente aveva impugnato la sentenza di appello poiché il giudice, anziché annullare l’atto impositivo come richiesto, aveva semplicemente e forfetariamente ridotto del 20% i maggiori ricavi ed i corrispettivi accertati con criterio sostanzialmente equitativo.
La Corte di Cassazione, con la succitata sentenza, ha ribadito il principio che il processo tributario non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate.
Dunque, se ritiene invalido l’accertamento per vizi di carattere sostanziale, non si può limitare ad annullare l’atto, ma è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria.
Tuttavia, per ridurre il quantum accertato dal fisco, il giudice tributario deve fornire un’adeguata motivazione sui criteri e sulle ragioni che giustificano una diversa determinazione delle somme dovute dal contribuente, a titolo di tributo, interessi e sanzioni.
Secondo la Cassazione, con la succitata sentenza, “va esclusa la sussistenza di qualsivoglia potere equitativo”.
CASO N. 69
RIMBORSI
A) La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 4773 del 27 febbraio 2009 ha stabilito il principio che l’ufficio finanziario non competente, che riceve un istanza di rimborso, è tenuto a trasmettere tale istanza all’ufficio competente, in conformità delle regole di collaborazione tra organi della stessa Amministrazione finanziaria, anche a norma dell’art. 5 della Legge n. 249 del 18 marzo 1968, restando configurabile, in difetto, un silenzio-rifiuto del rimborso medesimo, impugnabile dinanzi alle Commissioni Tributarie, e ciò sia perché la domanda di rimborso non è rivolta ad un organo estraneo all’Amministrazione finanziaria sia perché, in tema di rimborso, l’ordinamento impone una dovuta costante collaborazione tra organi della stessa Amministrazione.
B) La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con l’ordinanza n. 21528 del 09 ottobre 2009 ha stabilito il seguente principio:
“Il termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso delle imposte sui redditi in caso di versamenti diretti, previsto dall’art. 38 del DPR 602/73, decorre, nell’ipotesi di effettuazione di versamenti in acconto, dal versamento del saldo solo nel caso in cui il relativo diritto derivi da un’eccedenza degli importi anticipatamente corrisposti rispetto all’ammontare del tributo che risulti al momento del saldo complessivamente dovuto, oppure rispetto ad una successiva determinazione in via definitiva dell’an e del quantum dell’obbligazione fiscale; mentre, non può che decorrere dal giorno dei singoli versamenti in acconto nel caso in cui questi, già all’atto della loro effettuazione, risultino parzialmente o totalmente non dovuti, poiché in questa ipotesi l’interesse e la possibilità di richiedere il rimborso sussistono sin da tale momento”.
C) La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con la sentenza n. 14024 del 09 aprile 2009, depositata il 17 giugno 2009, ha stabilito che la disposizione di cui all’art. 8 dello Statuto del Contribuente opera anche con riferimento a rapporti giuridici formatisi in periodi di imposta anteriori all’entrata in vigore della normativa.
Di conseguenza, deve essere disposto il rimborso degli oneri sostenuti dal contribuente per la prestazione di fideiussione finalizzata alla sospensione, rateazione o rimborso di tributi.
CASO N. 70
INCOMPATIBILITA’ DEI GIUDICI TRIBUTARI
Qualsiasi forma di consulenza tributaria, compresa la redazione delle dichiarazioni, è incompatibile con la carica di giudice tributario.
Quanto sopra è stato ulteriormente precisato dal Consiglio di Stato, con la decisione n. 6519/2009 depositata il 23 ottobre 2009.
Inoltre, sussiste l’incompatibilità anche per le prestazioni in forma sporadica e occasionale oppure accessoria a quella principale, come più volte stabilito dal Consiglio di Stato – Sezione IV – con le decisioni n. 1464 del 23 marzo 2004, n. 3366 del 29 maggio 2009, n. 5842 del 28 settembre 2009.
Infine, si precisa che il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento delle Finanze – con la circolare n. 4 del 29 ottobre 2009 della Direzione della Giustizia Tributaria ha chiarito l’organizzazione e le funzioni della Direzione stessa, sulla base di quanto disposto con il D.P.R. n. 43 del 30 gennaio 2008.
CASO N. 71
NOTIFICHE A MEZZO DEL SERVIZIO POSTALE
Le sentenze della Corte di Cassazione che in seguito saranno commentate confermano che permangono incertezze, nel panorama giurisprudenziale, sulla questione relativa alla sussistenza di un vizio invalidante in caso di notifica a mezzo posta senza apposizione di relata, nonché alla qualificazione del vizio in termini di mera irregolarità, nullità o giuridica inesistenza.
Parimenti incerta resta la problematica relativa all’operatività della sanatoria del vizio di nullità.
Una corretta soluzione interpretativa non consente di indulgere in generalizzazioni e presuppone, innanzitutto, che si distingua in ragione della natura, sostanziale o processuale, dell’atto tributario che si deve notificare.
A) La Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 9493 del 13 febbraio 2009, depositata il 22 aprile 2009, ha ritenuto mera irregolarità la mancanza della relata di notifica, in base alla seguente motivazione:
“Il primo motivo di ricorso è fondato.
La questione relativa alla conseguenza sul procedimento di notifica a mezzo del servizio postale del vizio costituito dall’omessa indicazione sull’atto da notificarsi della relazione prevista ex.. art. 3 della legge 20 novembre:1982, n. 890 (a mente del quale «l’ufficiale giudiziario scrive la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell’atto, facendo menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento), è già risolta dalle Sezioni Unite con sentenza 19 luglio 1995, n. 7821 nel senso che tale carenza comporta mera irregolarità della notificazione e non già inesistenza della stessa e ciò sulla base della considerazione che. la fase essenziale, del procedimento è data dalla attività dell’agente postale (tanto che è l’avviso di ricevimento che costituisce l’avvenuta notificazione) mentre quella dell’ufficiale giudiziario (o di colui che sia autorizzato ad
avvalersi di tale mezzo di notifica) ha il solo scopo di fornire al richiedente la notifica la prova dell’avvenuta spedizione e l’indicazione dell’ufficio postale al quale è stato consegnato il plico.
In definitiva, ha ritenuto la Corte, la relata «non ha carattere e natura di requisito essenziale ai fini dell’esistenza giuridica della fase di documentazione dell’avvenuta notificazione. Risulta legittimata, allora, l’ulteriore conclusione che, quando sia allegato l’avviso di ricevimento ritualmente completato, l’omissione della apposizione della relazione, non solo nella copia per il destinatario (e ciò risulta incontestabile sol che si consideri che tutti i dati del procedimento notificatorio per lui essenziali sono enunciati nella busta consegnatagli), ma altresì nell’originale, non può determinare l’inesistenza giuridica della documentazione della notifica e, con ciò, della notifica stessa; e, correlativamente, che siffatta omissione realizza un semplice vizio che, comunque, a tutto concedere; può essere fatto valere dal destinatario; una volta che l’adempimento non è previsto nel suo interesse (arg. art. 157, comma 2, c.p.c.,)» (così in motivazione la sentenza citata) (v. anche sentenza n. 12010 del 2006).”.
B) Invece, la Corte di Cassazione, Sez. tributaria, con la sentenza n. 9377 del 16 febbraio 2009, depositata il 21 aprile 2009, in senso contrario a quanto esposto con la precedente sentenza sub A, con motivazioni, secondo me, più corrette, ha ritenuto motivo di nullità la mancata relata di notifica, in base ai seguenti principi di diritto:
“Il primo motivo di ricorso fondato, nei termini nei limiti di cui in prosieguo.
La giurisprudenza di questo giudice di legittimità è concorde nell’escludere chela mancata apposizione sull’originale o sulla copia consegnata al destinatario della relazione prevista dall’art. 3 legge 20 novembre 1982, n. 890 comporti l’inesistenza della notificazione effettuata a mezzo del servizio postale.
Parte della citata giurisprudenza ritiene infatti chela mancanza della relata comporti una mera irregolarità, che non può essere fatta valere dal destinatario, trattandosi di un adempimento che non è previsto nel- suo interesse (v. Cass. n.12010 del 2006); mentre altra parte ritiene che tale mancanza comporti la nullità della notifica, sanabile a seguito del raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato (v.. Cass: n. 2079 del 2008).
Questo collegio ritiene di dover aderire a tale ultimo; più recente orientamento, perché la relata è prevista come momento fondamentale nell’ambito del procedimento di notificazione sia dal codice di rito che dalla normativa speciale e non è integralmente surrogabile dall’attività dell’ufficiale postale, sicché la sua mancanza, anche nella notificazione a mezzo del servizio postale, non può essere ritenuta una mera irregolarità.
Tanto premesso, nella specie deve escludersi che la nullità della notificazione possa essere stata sanata dall’intempestivo ricorso proposto dal contribuente, posto che, a prescindere da ogni altra considerazione, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), la nullità di una notificazione (ad esempio, del ricorso introduttivo ovvero dell’atto di gravame) è sanata con efficacia retroattiva dalla costituzioni della parte (resistenze o appellata), anche quando essa sia avvenuta al solo di fine eccepire la suddetta nullità, ma tale effetto sanante deve escludersi quando detta costituzione sia avvenuta in modo lato sensu “invalido” (v. Cass. n. 8777 del 2008), dovendo peraltro rilevarsi che nella specie proprio l’eventuale sanatoria comporterebbe la decorrenza del termine determinante l’inammissibilità del medesimo ricorso sanante.”.
C) Arrivati a questo punto, anche per dare certezze agli operatori del diritto, è opportuno che sull’argomento si pronunci in modo definitivo la Corte di Cassazione a Sezioni Unite.
CASO 72
VALORE DELLE CIRCOLARI MINISTERIALI
Sul valore delle circolari ministeriali, che non devono mai impegnare né il contribuente né tantomeno i giudici tributari, la Corte di Cassazione, si è pronunciata con varie sentenze (n. 2092 del 25 marzo 1983; n. 11931 del 17 novembre 1995; n. 14619 del 10 novembre 2000; n. 11011 del 14 luglio 2003).
Devono quindi affermarsi, secondo la visione della Suprema Corte, ì seguenti principi di interpretazione delle norme tributarie, soprattutto alla luce della sentenza n. 23031 del 09 ottobre 2007, depositata il 02 novembre 2007:
1)”la circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull’autotassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata direttamente al contribuente”;
2)”la circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sott’ordinati, ai quali non è vietato disattenderla, senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall’ufficio possa essere ritenuto illegittimo per violazione della circolare: infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l’atto emanato sarà illegittimo per violazione di. legge”;
3) “la circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l’interpretazione adottata … Non si può al riguardo, non concordare con quella autorevole dottrina che sostiene che, ammettere che l’Amministrazione (ancorché prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sé e i giudici tributari, equivale a riconoscere all’Amministrazione stessa un potere normativo che, a tacer d’altro, è in palese contrasto con il principio costituzionale della riserva di legge codificato dall’art. 23 della Costituzione. Tutt’al più potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’Amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa essere valutato) ai fini dell’applicazione delle sanzioni”;
4) “la circolare non vincola, infine, il giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione), dato che per l’annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data dall’Amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l’ordinamento affida esclusivamente al giudice il compito di interpretare la norma”.
CASO N. 73
LE SPESE DEL GIUDIZIO
A) LE SPESE DEL GIUDIZIO – NOVITA’ LEGISLATIVE –
Significativi sono stati i riflessi della novella del 2009 sulla regolamentazione delle spese del giudizio tributario attraverso la riformulazione degli artt. 91, 92 e 96 c.p.c.. Tali modifiche sono state introdotte dal legislatore per far ricadere i costi del processo sulla parte che ha concorso, con la propria condotta a determinarne la durata. L’applicabilità dell’art. 92, comma 2, al processo tributario è direttamente prevista dall’art. 15, comma 1, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, mentre per quella degli artt. 91 e 96 si fa riferimento alla norma generale di rinvio alle disposizioni del c.p.c. di cui all’art. 1, ultimo comma del d.lgs 546/92.
L’art. 45, comma 10, della legge n. 69/09 sostituisce il secondo periodo dell’art. 91 (condanna alle spese in caso di soccombenza), comma 1, disponendo che se il giudice accoglie la domanda in misura non superiore alla proposta di conciliazione intervenuta nelle more del giudizio, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo non statuisca la compensazione. La disposizione costituisce l’applicazione del principio di causalità che governa la regolamentazione delle spese di giudizio, infatti, la parte che rifiuta la proposta conciliativa rende necessaria la prosecuzione del processo (si può parlare di abuso del processo), è dunque costui a doversi fare carico delle spese processuali.
E’ evidente che la condanna alle spese processuali, a norma dell’art. 91, è scevra da connotazioni sanzionatorie e perciò prescinde dalla valutazione dell’elemento soggettivo, il fine della norma è quello di creare un deterrente a contenziosi defatiganti e temerari.
Malgrado la norma non specifichi se per “proposta conciliativa” debba intendersi una proposta fatta solo dinanzi al giudice o anche stragiudiziale, nel processo tributario la norma trova applicazione nell’ipotesi di mancata accettazione della proposta di conciliazione giudiziale prevista dall’art. 48 del D.lgs. n.546/1992, alla quale segue la prosecuzione del giudizio dinanzi alla Commissione tributaria[1]. Nel caso specifico, infatti, se la Commissione determina l’ammontare del tributo o del reddito in misura non superiore alla proposta conciliativa, condanna la parte che l’ha rifiutata senza giustificato motivo, al pagamento delle spese del giudizio maturate a seguito della proposta conciliativa. Si tratta di una deroga alla regola generale fissata dall’art. 92 c.p.c. per il caso di soccombenza reciproca.
[1] Nel rito tributario, esiste il patteggiamento sulla pretesa fiscale, anche qui il giudice dei tributi può promuovere d’ufficio la conciliazione tra le parti.
Vecchio testo: 91. Condanna alle spese. Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa.
Nuovo testo: 91. Condanna alle spese. Il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92.
L’art. 45, comma 11, ha modificato nel secondo comma, l’art. 92 c.p.c. (condanna alle spese per singoli atti e compensazione delle spese) che prevede: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”, non sono quindi più sufficienti i giusti motivi.
Nella sua originaria formulazione invece, l’art. 92, comma 2, prevedeva la facoltà per il giudice di compensare in tutto o in parte le spese tra le parti, in presenza di soccombenza reciproca o di giusti motivi che sfuggivano, però, a qualsiasi elencazione che non fosse meramente semplificativa.
A seguito della modifica apportata al comma 2 dell’art. 92, dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, è stato introdotto l’obbligo di specifica motivazione circa i giusti motivi di compensazione delle spese di giudizio, prima di allora il giudice poteva anche non fornire alcuna motivazione.
Resta da definire se il contrasto di giurisprudenza possa essere invocato o meno come motivo grave ed eccezionale, come era già stato indicato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 20598/2008[2], o se le parti, a conoscenza di tale contrasto, non debbano sopportare il rischio della pronuncia sfavorevole. Nella citata sentenza la Corte di cassazione aveva spiegato che il potere del giudice di pronunciare la compensazione fra le parti delle spese del giudizio non è arbitrario o discrezionale, e qualora esercitato esso deve essere sorretto da adeguata motivazione, quale, a titolo esemplificativo, quella riguardante la presenza di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, ovvero di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste, ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali.
[2] Cass., Sez. Unite, del 30 luglio 2008 n. 20598
Il fine della modifica dovrebbe essere quello di evitare contenziosi infondati e dilatori, prevedendo la compensazione come un’ipotesi eccezionale.
L’ultima novità in materia di spese di giudizio riguarda l’art. 96 c.p.c., relativo alla responsabilità aggravata, nel caso in cui la parte abbia agito o resistito in giudizio per dolo o colpa grave. L’art. 45, comma 12, della legge aggiunge ai primi due commi ( “Se risulta che la parte soccombente ha agito con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza. Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente”), il terzo comma che prevede una nuova ipotesi di responsabilità aggravata:
“In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata,”.
Le novità si possono così sintetizzare:
1) la condanna può intervenire d’ufficio, su iniziativa del giudice,
2) la condanna può intervenire in via equitativa.
La condanna, diversamente da quella prevista dai primi due commi, non richiede la prova del danno; ove il pregiudizio non si possa quantificare nel suo esatto ammontare si prevede la sua determinazione secondo equità, la norma non impone un ammontare massimo liquidabile, che resta affidata all’equo apprezzamento del giudice. Quella introdotta dal terzo comma dell’art. 96 si potrebbe considerare a tutti gli effetti una condanna di tipo “punitiva” processuale, prescindendo del tutto dalla prova del pregiudizio e della colpa grave o dolo, avendo come solo presupposto la soccombenza, anche incolpevole, della controparte. Inoltre, dalla lettura della disposizione si evince la natura di condanna accessoria che può intervenire quindi in via autonoma ed esclusiva o in aggiunta a quelle già previste[3].
[3] Sul punto, Buffone G., Regolamentazione delle spese di lite, in Prime riflessioni sulla novella al codice di procedura civile . Seminario di formazione professionale in Catanzaro.
B) RECENTE GIURISPRUDENZA
La Corte di Cassazione, Seconda Sezione Civile, con la sentenza n. 5420/09 del 26 gennaio 2009, depositata il 05 marzo 2009, ha stabilito il seguente principio di diritto:
“Il motivo è manifestamente fondato alla luce del principio che le Sezioni Unite di questa Corte – componendo un contrasto tra le sezioni semplici – hanno di recente affermato e secondo cui nel regime anteriore a quello introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. a) della legge 28 dicembre 2005 n. 263, il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese “per giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purché, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente e inequivocamente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito (o di rito). Ne consegue che deve ritenersi assolto l’obbligo del giudice anche allorché le argomentazioni svolte per la statuizione di merito (o di rito) contengano in sé considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata, come – a titolo meramente esemplificativo – nel caso in cui si dà atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste, ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali (sentenza 30/7/2008 n. 20598). Sulla scorta del detto principio il ricorso si rivela fondato considerato che nel caso di specie il giudice di pace, da un lato, ha accolto l’opposizione, con una motivazione che riconosce integralmente ragione alla società opponente, e, dall’altro, ha disposto la compensazione delle spese, senza giustificare in alcun modo la relativa statuizione.
Il ricorso va, pertanto, accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio ad altro giudice di pace di Agrigento che si atterrà, nel regolamento delle spese, ai principi sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità”.
CASO N. 74
SOCIETA’ CANCELLATE
La Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, con l’ordinanza n. 19804 dell’08 luglio 2009, depositata il 15 settembre 2009, per dirimere un contrasto giurisprudenziale ha precisato quanto segue:
“Vengono rimessi gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione perché valuti l’opportunità di sottoporre all’esame delle Sezioni Unite la questione relativa. agli effetti della cancellazione di società di capitali e di persone dal Registro delle imprese, al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale manifestatosi tra contrapposti indirizzi interpretativi.
Un primo orientamento, espresso da recenti decisioni, interpretando il nuovo diritto societario, afferma che la modifica dell’art. 2495 c.c., ex art. 4 del D. Lgs. n. 6/2003, secondo la quale la cancellazione dal Registro delle imprese determina, contrariamente a quanto previsto per la disciplina previgente dall’art. 2456 c.c., l’estinzione della società, si applica anche alle società di persone, nonostante la prescrizione normativa indichi esclusivamente quelle di capitali e quelle cooperative, ed inoltre la norma, per la sua funzione ricognitiva, è retroattiva e trova applicazione anche in ordine alle cancellazioni intervenute anteriormente al 1° gennaio 2004, data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal citato D.Lgs. n. 6/2003, con la sola esclusione dei rapporti esauriti e degli effetti già irreversibilmente verificatisi.
Altro orientamento, consolidatosi nel tempo tanto da essere considerato dalla Corte Costituzionale come «diritto vivente», facendo riferimento alla disciplina vigente anteriormente alla riforma societaria, ha ritenuto, con riguardo sia `alle società di persone che alle società di capitali, che l’atto formale di cancellazione di una società dal Registro delle imprese, così come il suo scioglimento, con instaurazione della fase di liquidazione, non determina l‘estinzione della società ove non siano esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di liquidazione, ovvero non siano definite tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi, e non causa, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti, la perdita della legittimazione processuale della società e un mutamento nella rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permane in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione.
CASO N. 75
RESPONSABILE DEL PROCEDIMENTO
CARTELLE “MUTE”
Con la sentenza del 27 febbraio 2009 n. 58 la Corte Costituzionale, decidendo sulle questioni di costituzionalità dell’art. 36, comma 4-ter, del D.L. 31 dicembre 2007 n. 248, sollevate dalle Commissioni Tributarie Provinciali di Isernia e di Lucca, nonché dal Giudice di Pace di Genova, ha escluso che, anteriormente all’emanazione della disposizione impugnata, dalla mancata indicazione del responsabile del procedimento sulla cartella di pagamento discenda la nullità della stessa.
Secondo la Corte Costituzionale, infatti, la disposizione impugnata non contiene alcuna norma retroattiva.
Essa dispone solo per il futuro, comminando la nullità alle sole cartelle di pagamento prive dell’indicazione del responsabile del procedimento emesse a partire dal 1° giugno 2008.
Il rigetto delle questioni sollevate è motivato dalla Consulta considerando che l’art. 7, comma 2, della Legge n. 212 del 27 luglio 2000, a differenza di quanto disposto da altre norme della medesima legge, non commina la nullità per la violazione dei propri precetti.
E una tale forma di invalidità, in mancanza di una espressa previsione normativa, non può certo dedursi dai principi di cui all’art. 97 della Costituzione o da quelli del diritto tributario e dell’azione amministrativa.
Quanto sopra è stato ulteriormente ribadito dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 291 depositata il 06 novembre 2009.
CASO N. 76
SOCIETA’ DI FATTO AI FINI FISCALI
La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la sentenza n. 29437 del 15 ottobre 2008, depositata il 17 dicembre 2008, in merito alla prova dell’esistenza di una società di fatto ai fini fiscali, ha pronunciato il seguente principio di diritto:
“Ciò posto, e venendo all’esame del ricorso, al quesito proposto dall’Amministrazione col primo motivo va data risposta positiva, in quanto l’esistenza di una attività imprenditoriale societaria richiede, ai fini fiscali, sia il requisito dell’apparenza del vincolo sociale nei confronti dei terzi, quale indice rivelatore della reale esistenza di tale società(cfr. Cass. 4415/91), sia l’effettiva esistenza degli elementi costitutivi di tale vincolo (Cass. 27775/2005), che l’Amministrazione può provare anche in via presuntiva (cfr. Cass. 10695/97). L’indagine in tal senso va quindi condotta con riferimento agli elementi richiesti dall’art. 2247 c.c., per la sussistenza di un’attività societaria di fatto, consistenti nell’intenzionale esercizio in comune fra i soci di un’attività commerciale, anche occasionale, a scopo di lucro e conferimento a tal fine dei necessari beni e servizi (Cass. 15538/2002)”.
CASO N. 77
ANTIRICICLAGGIO
La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, con l’importante sentenza n. 23017 del 24 settembre 2009, depositata il 30 ottobre 2009, in tema di antiriciclaggio, ha stabilito il seguente principio di diritto:
“La censura è fondata, sotto il profilo della falsa applicazione di legge; non hanno pertanto rilevanza le eccezioni del resistente (v. par. 2.2), attinenti alla pretesa inammissibilità del motivo in relazione al vaglio del materiale probatorio.
4.2.- Lo scopo cui tende la normativa interessante la presente causa è quello, annunziato già nel titolo del più volte citato D.L. n. 143 del 1991, di contrastare i fenomeni criminali, limitando l’uso del denaro contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenendo “l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio”; a tal fine, il legislatore – recependo anche direttive europee (cfr. D.Lgs. n. 153 del 1997) – intende reprimere alcune condotte di pericolo (Cass. n. 6647/2007) fra le quali, per quanto ora interessa, quelle operazioni che “per caratteristiche, entità, natura, o per qualsivoglia altra circostanza, induca(no) a ritenere” la possibile provenienza di denaro, beni o utilità, oggetto di dette operazioni, da taluno dei reati contemplati dagli artt. 6486 bis e 648 ter c.p. (D.L. n. 143 del 1991, art. 3, comma 1, sostituito dal D.Lgs. n. 153 del 1997, art. 1, entrato in vigore il 01.09.1997, per segnalazioni effettuate dopo tale data, come prescrive il successivo art. 2, quindi applicabile alla controversia in esame).
4.2.1.- È necessario sottolineare, in proposito, che tenuto a segnalare simili operazioni è “il responsabile della dipendenza”, il quale ne riferisce al “titolare dell’attività”; quest’ultimo “esamina le segnalazioni pervenutegli e qualora le ritenga fondate tenendo conto dell’insieme degli elementi a sua disposizione, … le trasmette senza ritardo al Questore del luogo dell’operazione, il quale ne informa l’Alto commissario e il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza” (art. 3 cit., comma 2). Altrimenti le archivia.
4.2.2.- Nelle ipotesi contemplate dall’art. 3, ossia nel caso di operazioni sospettabili di riciclaggio, la legge prevede dunque un duplice obbligo di segnalazione (cfr. Cass. n. 25134/2008), ugualmente sanzionato dal D.L. n. 143 del 1991, art. 5, comma 5: da parte del responsabile della dipendenza al titolare dell’attività, ossia all’organo direttivo della banca (art. 3, comma 1), e da parte di quest’ultimo al Questore (comma 2).
È del tutto evidente che il potere di valutare le segnalazioni e di trasmetterle al Questore solo se le ritenga fondate, in base all’insieme degli elementi a disposizione, spetta solo al titolare dell’attività; mentre il responsabile della dipendenza, come l’odierno resistente, ha un margine di discrezionalità più ridotto, dovendo segnalare al suo superiore “ogni” operazione che lo “induca a ritenere” che l’oggetto di essa “possa provenire” da reati attinenti al riciclaggio.
4.2.3.- Anche nell’ambito di questo più ristretto margine di giudizio, il responsabile della dipendenza deve controllare, per vero, che sussistano elementi tali da far ritenere sospetta l’operazione; ma si tratta di elementi essenzialmente oggettivi stabiliti dalla stessa legge – caratteristiche, entità, natura o “qualsivoglia altra circostanza” oggettivamente significativa – o ulteriormente specificati dalla Banca d’Italia; laddove gli elementi (pur sempre di carattere oggettivo) riferibili al cliente, che il responsabile della dipendenza è pure tenuto a considerare, sono la capacità economica e l’attività svolta: ciò significa, evidentemente, che l’entità (ad es.) dell’operazione non può essere elevata a sospetto se risulta che il soggetto operante è dotato di alta capacità economica.
4.2.4.- Una di tali caratteristiche oggettive, menzionata espressamente dalla norma e ricorrente nel caso di specie, consiste nella “effettuazione di una pluralità di operazioni non giustificata dall’attività svolta da parte della stessa persona”; ciò significa che anche una pluralità di operazioni, ciascuna delle quali eventualmente inferiore al limite tollerato dalla legge, può non indurre alcun sospetto, e quindi non richiedere di essere segnalata, se il soggetto operante svolge notoriamente un’attività economica che, per sua natura, comporta la necessità di ricorrere ad una “pluralità di operazioni”; altrimenti, la segnalazione è obbligatoria.
4.3.- Nel caso di specie, il tribunale annota che gli “indici di anomalia”, predisposti dalla Banca d’Italia in quanto significativi di operazioni sospette, “segnalano la necessità di ulteriori approfondimenti da parte dell’intermediario sulla base della totalità delle informazioni di cui dispone”; e conclude nel senso che “la conoscenza dei soggetti coinvolti e della provenienza del denaro utilizzato” valgono ad esentare da sospetti la reiterata emissione di assegni (ciascuno inferiore a L. venti milioni), che pertanto non meritava di essere segnalata.
4.3.1.- Questo ragionamento costituisce falsa applicazione della normativa in esame, sia perché la debita valutazione da parte dell’intermediario (organo direttivo della banca) dell’operazione segnalata, alla luce di tutti gli altri elementi a sua disposizione (art. 3, comma 2), non compete al responsabile della dipendenza bancaria (art. 3, comma 1), come si è spiegato al par. 4.2.2; sia perché i dati relativi al cliente, che il responsabile di agenzia può legittimamente apprezzare, non sono quelli menzionati dal tribunale (conoscenza personale del soggetto e provenienza del denaro), bensì la capacità economica ed il tipo di attività svolta da costui: elementi diversi da quelli presenti e considerati nella fattispecie in esame”.
PARTE TERZA
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
L’interpretazione della legge implica degli spazi di libertà che non possono essere sottratti ai giudici.
Infatti, il c.d. “diritto giurisprudenziale” viene riconosciuto come particolare fonte del diritto.
In conseguenza di ciò, ci si avvicina sempre più all’idea che la relazione tra legislazione e giurisprudenza debba essere concepita non come asimmetrica-lineare, bensì in senso circolare, come reciproca delimitazione degli ambiti decisionali.
Le decisioni dell’una costituiscono le premesse di decisione per l’altra; le osservazioni dell’una costituiscono l’oggetto dell’osservazione dell’altra; dal punto di vista giuridico, la differenza può essere rappresentata come circolo cibernetico, nel quale il diritto osserva se stesso al livello dell’osservazione di secondo ordine (N. LUHMANN).
I tratti essenziali di un processo sono i seguenti:
1) un interesse specifico al tema;
2) la certezza di una decisione verrà senz’altro adottata;
3) l’incertezza su quale sarà la decisione.
In particolare, è proprio l’incertezza dell’esito ad essere essenziale al procedimento.
L’incertezza stimola gli interessati a contribuire allo svolgersi del procedimento con specifici tentativi di riduzione, tiene deste le loro speranze e li guida sulla strada che porta alla decisione secondo le regole del procedimento.
In altri termini, l’incertezza motiva l’accettazione di un ruolo e, quindi, anche del contesto dei ruoli che assorbe gradualmente l’incertezza stessa.
Se l’incertezza viene a mancare non si è più in presenza di un procedimento autonomo, bensì di una semplice rappresentazione ritualistica dei valori di un altro sistema, che deve allora essere motivato anche esternamente.
In tale contesto, inoltre, non deve essere ignorato il principio giuridico della libera valutazione delle prove o del libero convincimento del giudice.
Il principio non viene introdotto come libertà di cogliere il bersaglio o di fallirlo, ma come libertà di trascurare i ruoli estranei al processo.
Il procedimento ha, quindi, la funzione di specificare l’insoddisfazione ed assorbire le proteste.
Il motore del procedimento è, però, l’incertezza dell’esito.
Questa incertezza è la forza motrice, l’autentico fattore legittimante (J. Frank e V. Aubert).
Durante il processo essa deve, pertanto, essere salvaguardata e mantenuta con ogni cura e con i mezzi del cerimoniale.
Infatti, il principio dell’imparzialità del giudice aiuta le parti a confidare che il giudice non abbia contratto già prima del procedimento impegni specifici, e su tale fiducia nell’incertezza della situazione si basa la motivazione ad impegnarsi nel procedimento.
Questi principi, secondo me, non sono rispettati con la modifica dell’art. 360-bis, n.1, cit. c.p.c. perché il fatto che, in quel momento storico, ci sia una giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, con la conseguenza della inammissibilità del ricorso, fa venir meno il tratto peculiare dell’incertezza, cioè la possibilità che, nel corso degli anni, i giudici di legittimità possano cambiare idea ed indirizzo interpretativo.
Il nuovo art. 360-bis cit. introduce un sistema selettivo dei ricorsi costruito in termini negativi, ossia indicando i due casi nei quali il ricorso è inammissibile.
In particolare,il succitato articolo, al n. 1, ritiene il ricorso inammissibile:
“Quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”.
Intanto, non si comprende quale possa essere l’ipotesi del ricorso incapace di offrire “elementi per confermare” la giurisprudenza precedente, attesa l’inverosimiglianza di un ricorrente che miri alla conferma della giurisprudenza a lui sfavorevole.
Inoltre, la norma mette nelle mani della Corte un’eccessiva discrezionalità perché fa riferimento ad una giurisprudenza conforme che non è sempre così evidente (come risulta dai numerosi esempi, non certo esaustivi, esposti nella parte seconda del presente lavoro).
In sostanza, il filtro non deve tramutarsi “in una gabbia che rallenta l’evoluzione dell’interpretazione del diritto vivente, dell’adattamento delle regole giuridiche alle esigenze di una società e di un sistema economico che mutano più rapidamente delle strutture giuridiche” (G. Alpa, Presidente del Consiglio Nazionale Forense, in Il Sole 24 Ore di lunedì 01 giugno 2009).
Infatti, a venire soprattutto in considerazione saranno, plausibilmente, i rapporti percentuali tra le pronunce di un dato segno, rispetto alle altre; se del caso, altresì, in combinazione con la distanza cronologica che separa un orientamento consolidato del passato, in relazione al nuovo, difforme.
Questa situazione, che probabilmente porterà a sollevare varie eccezioni di incostituzionalità per i limiti al diritto di difesa (art. 24 della Costituzione), comporterà gravi conseguenze soprattutto nel settore tributario, il cui ordinamento viene forgiato spesso ai fini di gettito, senza una logica ferma, senza principi coordinati e stabili, senza l’indicazione di quanto il provvedimento rimanga in vigore.
Infatti, nel settore tributario, si va alla ricerca esclusiva del gettito (vero o presunto), spesso con provvedimenti ad hoc fuori dal sistema.
Mancano,insomma, la sistematicità e la sicurezza giuridica, nonostante i rilievi della Corte Costituzionale (sentenza n. 307/1983).
Di conseguenza, la frammentarietà normativa, alcune volte in contrasto con quella comunitaria, l’assenza di chiari e costanti principi giuridici, nonché gli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia UE possono determinare mutevoli orientamenti giurisprudenziali da parte della Corte di Cassazione, tanto è vero che non è raro l’intervento delle Sezioni Unite per dare uniformità e certezze interpretative.
Di conseguenza, secondo me, non è corretto cristallizzare il motivo di inammissibilità di un ricorso per Cassazione in un determinato momento storico, facendo perdere la speranza del ricorrente di un cambio di indirizzo interpretativo nel corso degli anni successivi.
E’ vero che, prima della novella del 2009, la Corte di Cassazione ha tenuto conto dei propri precedenti, ma questo lo ha fatto in sede di esame del ricorso, peraltro con un’analisi interpretativa alquanto compiuta, sia per la conferma che per la modifica; di conseguenza, tra il deposito del ricorso e la sentenza passavano degli anni che potevano, nell’incertezza, far sperare in un cambio di indirizzo a seguito di molteplici fattori legislativi, amministrativi, comunitari e giurisprudenziali.
Oggi, invece, la situazione cambia totalmente, perché da subito, tenuto conto dei precedenti “conformi” in quel determinato momento storico, il ricorso può essere dichiarato inammissibile e sarà veramente una “probatio diabolica” per il ricorrente offrire elementi per far mutare l’orientamento della Cassazione.
Oltretutto, non bisogna dimenticare che il nostro è un sistema giuridico di “civil law”, basato sulle codificazioni normative di origine parlamentare, cui fa da contraltare quello del “common law”, di origine inglese ed americano, nel quale le codificazioni normative assumono minor rilievo e la giurisprudenza, attraverso l’affermazione della regola dello “stare decisis”, acquisisce un ruolo creativo determinante.
Bisogna evitare il pericoloso passaggio da un sistema giuridico ad un altro, perché è necessario mantenere nel nostro Paese il tradizionale regime di “civil law”, contemperandolo con una giurisprudenza più evolutiva che creativa e, soprattutto, non mortificando il diritto di difesa, limitandone l’esercizio anche attraverso difficili sbarramenti procedurali.
In ogni caso, rebus sic stantibus, sarebbe opportuna, quanto prima, una seria ed urgente riforma del processo tributario non solo per mettere sullo stesso piano processuale la parte pubblica e quella privata ma, soprattutto, per consentire al contribuente, ed al suo qualificato difensore, una difesa piena ed effettiva, senza alcun divieto o limitazione per dimostrare efficacemente le proprie ragioni.
Lecce, 30 novembre 2009
AVV. MAURIZIO VILLANI
Avvocato Tributarista in Lecce
Patrocinante in Cassazione
www.studiotributariovillani.it
e-mail avvocato@studiotributariovillani.it
INDICE
Introduzione
PARTE PRIMA
Riforma del processo civile e del processo tributario. Ricorso per Cassazione – Problematiche attuali (art. 360-bis, n. 1, c.p.c.)
PARTE SECONDA
Contrasti giurisprudenziali della Corte di Cassazione in materia tributaria
CASO N. 1
Notificazioni – Applicabilità Art. 156 c.p.c.
CASO N. 2
Controversie tra sostituto d’imposta e sostituito
CASO N. 3
Fondazioni Bancarie
CASO N. 4
Imputabilità ai soci degli utili extracontabili
CASO N. 5
ICI – Cooperative agricole – Beni strumentali – Modifiche legislative
CASO N. 6
Scomputo delle ritenute fiscali in assenza della certificazione del sostituto d’imposta
CASO N. 7
Decadenza dell’Amministrazione Finanziaria
CASO N. 8
Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
CASO N. 9
Querela di falso per contestare i verbali – Sospensione del processo
CASO N. 10
Accantonamenti per indennità suppletiva di clientela
CASO N. 11
Ritrattabile quanto dichiarato anche con il termine scaduto in tema di imposta sulle successioni
CASO N. 12
Contabilità in nero
CASO N. 13
Informazioni anonime
CASO N. 14
Indagini bancarie
CASO N. 15
Litisconsorzio necessario
CASO N.16
Obiettive condizioni di incertezza
CASO N. 17
Elementi penali acquisiti irritualmente utilizzabili in sede fiscale
CASO N. 18
Autotutela
CASO N. 19
Decorrenza termine breve per l’impugnazione
CASO N. 20
IRAP – Autonoma organizzazione – Contributi –
CASO N. 21
Agevolazioni prima casa – Usucapione
CASO N. 22
Agevolazioni prima casa- Comunione legale
CASO N. 23
Abuso di diritto
CASO N. 24
Il principio di specifica contestazione
CASO N. 25
Ricorso per posta – Deposito –
CASO N. 26
Processo tributario. Deposito dell’avviso di ricevimento
CASO N. 27
Accesso alla giurisdizione tributaria
CASO N. 28
Rimessione nei termini
CASO N. 29
Verifiche indirette
CASO N. 30
Redditometro
CASO N. 31
Impugnazione del preavviso di fermo
CASO N. 32
Notifica al procuratore di più parti
CASO N. 33
Notifiche al fallito
CASO N. 34
Notifica degli atti presupposti
CASO N. 35
Gli studi di settore
CASO N. 36
Accertamenti fiscali
CASO N. 37
Cessione di azienda
CASO N. 38
Deposito ricorso per Cassazione
CASO N. 39
Problematiche penali e fiscali sulle operazioni inesistenti
CASO N. 40
Statuto dei diritti del contribuente – Tutela dell’affidamento legittimo –
CASO N. 41
Giudicato esterno
CASO N. 42
Testimonianza ed atto notorio
CASO N. 43
Erogazione di somme a titolo risarcitorio
CASO N. 44
Impugnazione delle decisioni della Commissione Tributaria Centrale
CASO N. 45
Notifiche a persone giuridiche
CASO N. 46
Principio di competenza
CASO N. 47
Processo tributario – Nomina del difensore – Concessionario della riscossione –
CASO N. 48
Imposta di successione – Conti correnti bancari o postali
CASO N. 49
Comunicazione preventiva alla cartella di pagamento
CASO N. 50
TOSAP – Appalti comunali esenti da imposta
CASO N. 51
Prescrizione lunga per i rimborsi
CASO N. 52
Contraddittorio indispensabile
CASO N. 53
Antieconomicità dei comportamenti del contribuente
CASO N. 54
Imposta di registro – Valutazione automatica – Decadenza triennale
CASO N. 55
Contrasto tra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale
CASO N. 56
Proroga dei termini a favore degli uffici fiscali
CASO N. 57
Problematiche in materia di TIA e TARSU
CASO N. 58
Processo tributario- Deposito documenti ed eccezioni
CASO N. 59
Comportamento concludente
CASO N. 60
Diritto di rivalsa IVA sul consumatore finale
CASO N. 61
Concetto di area edificabile
CASO N. 62
ICI – Fabbricati
CASO N. 63
Rimborso IVA chiesto dal cessionario
CASO N. 64
Condoni fiscali
CASO N. 65
Proventi da usura
CASO N. 66
Associazioni non riconosciute -Responsabilità-
CASO N. 67
Credito d’imposta investimenti
CASO N. 68
Equità
CASO N. 69
Rimborsi
CASO N. 70
Incompatibilità dei giudici tributari
CASO N. 71
Notifiche a mezzo del servizio postale
CASO N. 72
Valore delle circolari ministeriali
CASO N. 73
Le spese del giudizio
CASO N. 74
Società cancellate
CASO N. 75
Responsabile del procedimento – Cartelle “mute”
CASO N. 76
Società di fatto ai fini fiscali
CASO N. 77
Antiriciclaggio
PARTE TERZA
Considerazioni conclusive
INDICE
Lecce, 30 novembre 2009
AVV. MAURIZIO VILLANI
Avvocato Tributarista in Lecce
Patrocinante in Cassazione