Presenza territoriale e funzionalità

Intervento al convegno “commissioni tributarie”

Avv. Stefano Giannuolo

Il problema della adeguata presenza territoriale del Giudice Tributario e quello, con questo in larga misura connesso della sua funzionalità, ha rivestito un ruolo di assoluta centralità nella riforma recentemente introdotta in materia. Tale centralità sarà ancor più evidente nel caso dovesse andare in porto il progetto di riforma, o meglio di soppressione ed assorbimento nella giurisdizione ordinaria, prodotto dalla Commissione Bicamerale.

Sembrerebbe che il ricorso tributario sia da ultimo destinato, molto spesso, ad una sorte di pellegrinaggio tra Uffici giudiziari che, se ha determinato con la recente riforma non pochi problemi pratici e di funzionalità, ne procurerà certo altri moltiplicati, e probabilmente insormontabili, in seguito alla soppressione del Giudice Tributario.

A parte ciò, credo che la recente riforma abbia evidenziato un aspetto del tutto peculiare della giurisdizione in materia tributaria e della sua distribuzione negli ambiti di competenza territoriale.

Quando si distribuiscono nel territorio i singoli organi giurisdizionali, è essenziale tenere presente il bacino d’utenza che essi si trovano a dover servire. In pratica le dimensioni dei singoli uffici e la loro stessa collocazione non può non tener conto del volume della domanda di giustizia da fronteggiare. A questo proposito un aspetto evidenziato dalla riforma appena introdotta è proprio rappresentato dal fatto che la distribuzione dei giudici tributari su base provinciale e regionale non sempre è adeguata alle necessità.

I criteri in virtù dei quali il nostro territorio nazionale è suddiviso in province e regioni sono molto vari, prova ne è che regioni e province sono tutt’altro che omogenee in quanto a dimensioni territoriali, popolazione e condizioni economiche. Appare evidente quindi come i singoli giudici tributari si trovino a dover fronteggiare domande di giustizia molto diverse tra loro. Questa diversità non può essere colmata semplicemente dimensionando diversamente i singoli Uffici, a seconda delle esigenze. Da un lato quando un Ufficio giudiziario si trova a dover fronteggiare un carico di lavoro di notevoli dimensioni, per quanto grande possa essere, è in grado di operare meglio se organizzato in modo da ripartire al proprio interno il lavoro con un carattere di netta autonomia, quanto meno organizzativa. In secondo luogo, quando un unico giudice ha un ambito di competenza molto ampio, in termini di dimensioni territoriali, può venirsi a creare una situazione, in un certo qual modo, di discriminazione tra gli utenti di giustizia, ove nettamente svantaggiati, risultano essere coloro i quali si trovino lontano dalla sede del giudice da adire.

Esigenze analoghe a queste sono sentite in modo particolare anche in sede di distribuzione degli uffici amministrativi, ed in particolare di quelli finanziari, nel territorio.

Non mancano casi in cui siano stati istituiti Uffici aggiuntivi, o quanto meno sezioni staccate, per correggere una ripartizione delle competenze territoriali normalmente su base territoriale provinciale o regionale: si pensi, per esempio, ad alcuni secondi Uffici Iva.

Purtroppo l’istituzione delle nuove Commissioni provinciali e Regionali non è stata accompagnata da alcun correttivo. Il fatto è che le esigenze che ne avrebbero dettato l’opportunità erano ben presenti anche al legislatore della riforma. Infatti fin da prima dell’entrata in funzione del nuovo apparato giurisdizionale tributario, il legislatore si era premunito, predisponendo la possibilità di istituire sezioni decentrate, ove se ne presentasse la necessità. Mi riferisco in particolare alla legge n. 75 del 23 marzo 1993, che prevedeva il potere per il governo di istituire le sezioni decentrate entro il termine del 30 giugno 1993, lasciato infruttuosamente spirare. Tale possibilità si era riaperta successivamente con il Decreto Legge n. 331 del 30 settembre 1993. In conclusione però, le commissioni tributarie provinciali e regionali sono entrate in funzione senza l’istituzione di alcuna sezione staccata.

La possibilità di istituire le sezioni staccate rimane sempre aperta, tuttavia si è persa l’occasione di evitare un notevole prezzo in termini di tempo, scomodità per gli operatori e i contribuenti oltre che di lavoro per l’amministrazione. In effetti l’esigenza delle sezioni staccate sussiste soprattutto per quelle sedi di Commissione soppressa, che pur avendo fatto fronte ad un carico di lavoro notevole, non hanno trovato l’istituzione di una nuova Commissione non essendo capoluogo di Provincia o di Regione. Probabilmente ci si renderà ben conto di come si sia persa una valida occasione, se, una volta istituite le sezioni, la notevole massa di ricorsi già oggetto di trasferimento verso le nuove Commissioni dovesse subire un secondo “pellegrinaggio”, analogo a quello prima descritto, questa volta in senso inverso.

Fatte queste considerazioni, si comprende come i giudici ordinari che dovessero, con il nuovo sistema costituzionale, essere investiti anche della giurisdizione tributaria, necessiterebbero di adeguamenti in misura tale da rendere le istituende sezioni specializzate, talmente specializzate, da rendere del tutto illogico il non voler mantenere in vita un giudice speciale che, mai come in questo caso, ha ragione di esistere. La giurisdizione tributaria ha caratteri di specificità in ogni suo aspetto, non ultimo quello territoriale. Il giudice tributario si trova a far fronte ad un bacino d’utenza composto in modo differente anche da quelli propri della giurisdizione ordinaria. La riforma non potrebbe permettersi di istituire la sezioni specializzate, semplicemente dimensionandole proporzionalmente all’Ufficio di cui esse si troveranno a far parte: le varianti che dovranno essere considerate, per determinare il bacino d’utenza della giurisdizione in materia tributaria, sono talmente specifiche, da costituirne uno dei tanti elementi di specialità.

Il Giudice Tributario e le parti.

Fermo restando quanto appena detto, l’argomento che ci fa capire meglio degli altri come peculiari siano le esigenze di “presenza” nel territorio del giudice tributario lo si legge in una delle norme base del processo: mi riferisco all’art. 10 del D. Lgs 546/1992 che indica le parti del processo tributario. Da un lato abbiamo il ricorrente, dall’altro “l’Ufficio del Ministero delle Finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione”. Appare chiaro come, di regola, i rapporti giuridici conosciuti dal giudice tributario, facciano necessariamente riferimento a taluno dei soggetti appena indicati, numericamente limitati e territorialmente ben collocati, non solo, ma la gran parte dei ricorsi presentati alle Commissioni riguarda Uffici che nell’ambito di una provincia possono ben contarsi sulle dita delle mani, e che sono destinati a ridursi ulteriormente con l’introduzione degli Uffici unici delle entrate, competenti in materia di imposte dirette ed indirette. L’organizzazione delle Commissioni tributarie, così com’è, permette all’Amministrazione finanziaria di mantenere un certo coordinamento organizzativo con gli Uffici delle Commissioni, che non volendo, e non dovendo, costituire una sorta di privilegio per una parte processuale, rispetto ad un’altra, è probabilmente indispensabile all’Amministrazione, per evitare un tracollo organizzativo, che la condurrebbe praticamente all’impossibilità di tutelare adeguatamente i propri interessi in giudizio.

Funzionalità

Questo mi permette di introdurre un altro importante argomento, che ritengo già ora di notevole urgenza, e che sembra destinato a diventare un problema difficilmente valicabile in caso di soppressione delle Commissioni Tributarie. Mi riferisco alla pratica funzionalità del processo tributario.

Perché un processo possa essere definito funzionale è necessario che tale funzionalità riguardi tutti i protagonisti dello stesso: giudice, e parti. L’uno come gli altri debbono essere messi nelle condizioni di poter svolgere efficacemente il proprio ruolo. Perché ciò avvenga è addirittura indispensabile che al Giudice Tributario venga riconosciuto il ruolo che gli compete accanto agli altri magistrati della Magistratura Ordinaria ed Amministrativa. Ciò non può certo avvenire in modo compiuto finché problemi quali l’inadeguatezza del compenso, soprattutto a fronte della notevole responsabilità e dedizione (si pensi al rigore che si vuole introdurre in tema di incompatibilità) che si pretende invece dai Giudici.

Non ci si può inoltre esimere dal riconoscere come a fronte di un notevole carico di lavoro, alcune Commissioni si trovino in condizioni organizzative quantomeno caotiche. Questo vale in particolar modo per quelle Commissioni che, per effetto della soppressione delle vecchie Commissioni di I° e di II° grado che non avevano sede in un capoluogo di Provincia o di Regione, hanno visto aumentare il proprio carico di lavoro da processi il trasferimento dei quali, tra l’altro, si è tradotto in un materiale spostamento di un’enorme massa di fascicoli da un luogo ad un altro. In questi casi è purtroppo spesso esperienza ricorrente, per gli operatori e per i professionisti, lo scontrarsi con disguidi ed intoppi, quali possono essere la difficoltà di reperimento, se non addirittura il definitivo smarrimento, dei fascicoli processuali, che frustrano ogni pretesa di efficacia e celerità del processo tributario.

In effetti i problemi di natura amministrativa che affliggono alcune Commissioni si traducono nella inoperatività di quegli istituti processuali, che potrebbero svolgere un qualche effetto decongestionante. Mi riferisco soprattutto ai poteri di esame preliminare del ricorso attribuiti al Presidente della Sezione. In tale sede, in particolare, può essere rilevata l’inammissibilità manifesta del ricorso, può essere disposta la riunione con altri ricorsi, ma soprattutto può essere decretata l’estinzione del processo in presenza di una proposta di conciliazione presentata dalle parti prima della fissazione dell’udienza di trattazione. Nel caso di tempestivo esercizio di questi poteri, è possibile decongestionare il lavoro delle Commissioni evitando la fissazione di un’udienza che si limiterebbe a disporre quanto avrebbe comunque potuto fare il Presidente della Sezione in precedenza. Purtroppo i disagi amministrativi e il notevole carico di lavoro, vanno proprio a discapito di questa fase: se, per esempio, gli elementi che il Presidente potrebbe rilevare ai fini dell’esercizio del potere sono contenuti in atti, quali la proposta di conciliazione, che per un motivo o per l’altro, non hanno raggiunto il fascicolo processuale, vi è di fatto un’impossibilità di corretta applicazione dell’istituto processuale. Non solo, ma questo tipo di situazione, spinge spesso le parti a chiedere poi la trattazione in pubblica udienza, per assicurarsi che eventuali problemi di questo tipo vengano superati, direttamente dalla Commissione. Il tutto si traduce in un allungamento dei tempi processuali, e del carico di lavoro delle Commissioni.

Molto importante è anche l’apporto alla funzionalità delle Commissioni Tributarie che deve provenire dagli Uffici dell’Amministrazione Finanziaria che ne sono parte.

Il compito delle Commissioni Tributarie non è, innanzitutto, quello di sostituirsi agli Uffici nel delineare la fondatezza degli atti da questi emessi, perciò è necessario un adeguato grado tecnico – qualitativo dei provvedimenti prodotti dagli Uffici, una capacità di valutare la effettiva correttezza nel merito e formale del proprio operato e fare quindi in modo che all’esame delle Commissioni giungano provvedimenti difendibili. Infine deve essere assicurata una adeguata tutela della posizione dell’Ufficio quale parte processuale.

E’ assolutamente essenziale che l’Amministrazione sia messa nelle condizioni di operare nell’ambito ora descritto al meglio delle proprie possibilità, valorizzando il più possibile sotto il profilo professionale la preparazione tecnica del personale addetto alle singole fasi. In effetti un inadeguato operare degli Uffici, non fa altro che aumentare il carico di ricorsi rivolti alle Commissioni, limitandone, evidentemente la funzionalità.

Purtroppo non sempre gli atti degli Uffici risultano essere adeguati sotto il profilo tecnico – qualitativo, e questo per vari motivi, il primo è sicuramente rappresentato dal “leit motiv” della materia tributaria e cioè la complessità e la disorganicità della mastodontica normativa, che talvolta costringe gli Uffici ad andare “a tentoni”, agendo nel modo più rigoroso nella generalità dei casi, lasciando poi ai giudici tributari il compito di delineare l’effettiva portata della normativa. Mi preme qui, in proposito, sottolineare quella che potrebbe sembrare una banalità, ma che è praticamente incontestabile: più una norma è ambigua o poco chiara, maggiori saranno le interpretazioni, anche molto discostanti tra loro, che le si adatteranno, traducendosi il tutto in un aumento del contenzioso sul punto specifico. In conclusione il principale artefice della funzionalità del processo tributario deve essere deve essere il legislatore.

L’Amministrazione finanziaria, d’altro canto, deve garantire degli adeguati standard qualitativi del proprio operato: l’importanza di ciò è resa palese da vicende quali quella recente delle cosiddette “cartelle impazzite”. E’ davanti agli occhi di tutti come infortuni di questo tipo, possano tradursi in una valanga di ricorsi destinati a ingolfare la giustizia tributaria e che può certo essere evitata, come è avvenuto in questo caso, dall’Amministrazione, la quale risulta però costretta ad una corsa contro il tempo, e a costi maggiori in termini di lavoro.

La qualità del lavoro degli Uffici deve essere capillare, non dimentichiamoci che all’accennato maggior profilo tecnico – giuridico del processo tributario, si accompagna una maggiore tendenza del contribuente, spesso tecnicamente ben assistito, a saggiare la correttezza dei provvedimenti degli Uffici, proprio sotto il profilo tecnico – giuridico. In particolare l’importanza che, nel diritto amministrativo in genere, ed in quello tributario in particolare, viene sempre più ad assumere il requisito dell’adeguata motivazione dei provvedimenti, rende necessario prestare particolare attenzione a questo aspetto.

Si rileva, abbastanza di frequente, una carenza dei provvedimenti sotto questo profilo, specie quando si è preteso di motivare nella forma della cosiddetta motivazione per relationem. Questa talvolta, o perché gli atti richiamati non sono, come invece deve essere, nell’effettiva disponibilità dell’interessato o perché da essi in effetti non sono desumibili i motivi della decisione, si traduce in una mancanza di motivazione.

Diretto ad una ottimizzazione qualitativa dell’operato dell’Amministrazione, è anche l’istituto dell’autotutela, che dovrebbe permettere, tra l’altro, proprio l’eliminazione di quei provvedimenti, i quali, infondati nel merito o in diritto, sarebbero destinati ad un annullamento da parte delle Commissioni.

Nelle mani dell’Amministrazione è messo poi un altro importante strumento diretto a decongestionare il processo tributario, e cioè quello dell’istituto dell’accertamento con adesione, che fa il paio con la conciliazione giudiziale. Purtroppo ho l’impressione che meccanismi di notevole potenzialità quali quelli appena citati, trovino qualche difficoltà nel decollare completamente, anche se, pare, non abbiano mancato di produrre, comunque, alcuni effetti benefici sul flusso dei ricorsi. In effetti si è data ai rappresentanti dell’Amministrazione, una disponibilità del rapporto tributario, consistente in un potere con ampi margini di discrezionalità. E’ quindi opportuno mantenere ben definita una compiuta disciplina interna all’Amministrazione che delinei i criteri di esercizio, e costituisca una guida il più possibile dettagliata ed accessibile per il personale chiamato ad applicare gli istituti. Questo potrebbe rendere i meccanismi meno agili, ma credo sia il necessario prezzo da pagare alla tendenza, che talvolta si verifica nell’Amministrazione, a rifugiarsi in discipline il più possibile vincolate, piuttosto che sfruttare in modo incisivo spazi di discrezionalità, a fronte dei quali può essere configurata una notevole responsabilità anche personale.

In ultimo, ma non in termini di importanza, si deve considerare il modo in cui viene “assistita” l’Amministrazione finanziaria, quando essa è parte nel processo tributario. Come si sa, di regola l’assistenza tecnica in giudizio da parte di un difensore abilitato, a norma dell’art. 12 del D. Lgs. 546/1992, è necessaria, peraltro con alcuni limiti, solo per “le parti, diverse dall’Ufficio del Ministero delle Finanze o dall’ente locale nei cui confronti è stato proposto il ricorso”. In effetti per l’Amministrazione, la regola è quella dell’assistenza ad opera di propri funzionari, il cui costo, peraltro, è quantificato in sede di rimborso delle spese processuali da parte del soccombente in misura ridotta del 20% rispetto a quella determinata in base alla tariffa degli avvocati.

Mi sento, a questo punto, di poter dubitare fortemente che, pur a causa del complesso di ragioni sopra esposte, la maggior parte delle quali non possono certo essere imputate al personale, spesso la qualità dell’opera di assistenza dell’Amministrazione, sia di pregio tale da valere, per il contribuente soccombente, un onorario, pur ridotto, di avvocato. Più volte al ricorrente capita di trovarsi di fronte a contro deduzioni del resistente, costituite da un modulo, prestampato con argomentazioni predefinite, alcune delle quali si è avuto cura di opzionare con un tratto di penna. Lo stesso modulo, consta inoltre di poche righe, spesso lasciate in bianco, destinate ad argomentazioni di merito e di diritto. Tutto ciò si traduce in uno dei pochi vantaggi per il ricorrente, assistito da un professionista tecnicamente attrezzato, il quale mai si sognerebbe, evidentemente, di produrre in giudizio atti processuali di tal fatta, ma soprattutto in una scarsa tutela degli interessi dell’Amministrazione, la cui posizione in giudizio, è talvolta infondata, a causa del mancato funzionamento del filtro dell’autotutela, ma anche quando è ben difendibile, non sempre è adeguatamente perorata.