IL LAVORO DELLA COMMISSIONE TRIBUTARIA CENTRALE:
NECESSITA’ DI CONSERVARE IL SUO “PATRIMONIO CULTURALE”
1. Desidero innanzi tutto ringraziare i promotori di questo dibattito e tutti gli intervenuti che con la loro presenza conferiscono rilievo e prestigio alla manifestazione, il cui scopo precipuo è quello di evidenziare prima, e tentare di risolvere, poi, i problemi più sentiti che assillano l’organizzazione e la funzione stessa del nostro contenzioso tributario.
Il ringraziamento è maggiormente sentito, in quanto in questa significativa occasione è stato riservato uno spazio “anche” alla Commissione Tributaria Centrale; Consesso come tutti sappiamo destinato ad uscire definitivamente di scena, sviluppandosi, ormai, la procedura contenziosa secondo altri schemi e modelli.
A dispetto, però di tale obiettiva constatazione, il mio modesto contributo non vuole essere assolutamente di commemorazione di un qualcosa che presto o tardi non ci sarà più, ma di prospettazione per un futuro che dall’esperienza di un passato, peraltro mai così recente (perdonate il bisticcio!), può e “deve” trovare sicuri punti di riferimento ed agganci per il raggiungimento di una “sicura” giustizia tributaria, nell’interesse della collettività.
2. L’entrata a regime del nuovo rito del contenzioso tributario, nelle consolidate forme del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 e l’insediamento delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali, queste quali scelte istituzionali di ampio respiro e spessore, hanno indubbiamente relegato il ruolo della Commissione Tributaria Centrale ad una posizione del tutto marginale, quasi una sorta “di ufficio – stralcio” per gestire unicamente il contenzioso ancora pendente e come tale ineluttabilmente “datato”, a nulla rilevando se tali pendenze appartengono alla serie “grandi numeri”.
Il lavoro della Commissione Centrale, nella sua veste di giudice di terzo grado all’apice, quindi, del giudizio “specializzato” tributario, sembra al contrario, con il passare del tempo ed ad oltre un biennio dalla data di insediamento delle nuove Commissioni, essersi ancor più affinato, trasformando quella che doveva essere considerata attività di “routine”, finalizzata a gestire unicamente un’enorme mole di ricorsi accumulatisi negli anni, in una sorta di attività per molti versi più attenta e rispondente al continuo evolversi della giustizia tributaria, materia questa che nella continua fibrillazione degli istituti di tipo tecnico dettata dal nostro legislatore, apre in continuazione problematiche e scenari sempre nuovi e diversi e, conseguentemente, da “esplorare”.
La scelta del legislatore della riforma tributaria degli anni ‘70 è stata a ben vedere accurata ed oculata. L’istituzione di un organo da porre al vertice del processo tributario, trasformando la preesistente Commissione Centrale delle Imposte in un Consesso composito e “sicuramente” giurisdizionale, arricchito dalla presenza, in larga misura, di alti magistrati di carriera e destinato, per competenza specifica, a risolvere i conflitti più complessi che avrebbero potuto sorgere tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, è stata operazione coessenziale alla natura stessa della riforma tributaria operata.
Il sistema del contenzioso tributario ante – riforma, sempre degli anni ’70, poteva in effetti non suscitare, come non ne ha suscitati, grossi problemi: fino ad allora la tassazione era lieve; la legislazione tributaria non imponeva sforzi interpretativi particolari, in quanto relativamente semplice; non si richiedeva, poi, la computazione e conseguente tassazione del “vero” reddito attraverso l’applicazione di sofisticate procedure di accertamento; la tassazione delle persone fisiche aveva riguardo più che altro al reddito medio ed a sistemi più o meno empirici quali il “tenore di vita” e la “agiatezza”; il reddito delle imprese che pur doveva essere calcolato in base al bilancio, era in realtà calcolato sulla base di bilanci del tutto elementari, elaborati sulla base di una normativa che imponeva poche voci; nella maggior parte dei casi, infine e significativamente, i contribuenti chiudevano “la partita” con il fisco con il “concordato”. In questa situazione risulta chiaro che le vecchie Commissioni potevano anche andare bene [1].[1] Si confronti, Francesco TESAURO, “Evoluzione del contenzioso tributario e sue prospettive” – Intervento in un Convegno in Roma del 30 giugno 1984.
La delega del 1971, riprendendo alcuni punti del progetto noto con i nomi di Visentini ed Allorio, prende in considerazione la riduzione, in concreto, da sei a quattro i gradi di giudizio, con la conservazione, sotto mutate vesti, appunto, della Commissione Centrale, in alternativa, come è noto, alla Corte d’Appello, senza però giungere alla soluzione, per così dire, definitiva con l’istituzione di un “ruolo” di giudici tributari a tempo pieno o quanto meno alla creazione di “sezioni specializzate” in materia tributaria della magistratura ordinaria (progetto questo noto con il nome del suo assertore Azzariti).
Riprendendo un argomento già tratteggiato in precedenti occasioni e sulla scorta del pensiero di autorevole Dottrina [2], l’organo, in effetti, in esubero nel sistema del contenzioso tributario nato dalla riforma, pareva essere non tanto la Commissione Tributaria Centrale quanto la Corte di Cassazione.[2] Vedasi, per tutti, Arnaldo CIANI, “Esame critico dei principi della legge delega per la riforma del contenzioso tributario”, in “il fisco” n. 38/1992, pag. 9167.
Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 non menzionava affatto il ricorso per cassazione, non essendovi, del resto, delega sul punto. La Suprema Corte si è trovata, per così dire, inserita nella procedura tributaria quasi “per caso”, “dimenticandosi” forse il legislatore tributario dell’art. 111 della Costituzione, il quale prevede che, salvo le due eccezioni riguardanti il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, contro le sentenze dei giudici ordinari e speciali, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per motivi di legittimità.
Semplicemente, il legislatore della riforma tributaria del 1971 non ha né previsto le opportune specifiche modalità per inserire razionalmente il ricorso per cassazione nella procedura tributaria (ed il non averlo fatto è stata fonte di grossi inconvenienti), né, per converso, si è preoccupato di promuovere in alternativa una modifica, anche se di difficile praticabilità, dello stesso art. 111 della Costituzione, intesa a limitare il ricorso in Cassazione contro le decisioni della Commissione Tributaria Centrale, soltanto ai casi in cui vengono sollevate questioni di giurisdizione; così come oggi avviene per quanto riguarda il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti.
Il non aver regolato il ricorso per cassazione ha creato, come ben sanno gli “addetti ai lavori”, non poche e lievi situazioni di incertezza nell’ambito del processo tributario, causando, altresì, circostanza questa forse ancora più evidente, una sorte di ripetizione tra la funzione della Commissione Tributaria Centrale e quella della Corte di Cassazione.
Duplicazione di funzioni, ovviamente non formale, conservando la Corte di Cassazione il proprio sindacato sopra le decisioni della Commissione Centrale, ma che viene ad interessare e coinvolgere non solo l’ambito di competenza indirizzato allo specifico settore tributario, ma anche lo stesso tipo di composizione dei due collegi considerati.
E’ ben nota, infatti, l’osmosi che esiste tra Commissione Centrale ed alta magistratura, una volta avuto riguardo della consistente percentuale di magistrati della Corte di Cassazione che autorevolmente compongono il Consesso tributario.
3. Con riferimento alla competenza c’è da dire che il ricorso alla Commissione Centrale, avverso le decisioni delle Commissioni di 2° grado costituisce, o per meglio dire costituiva, un terzo grado di giurisdizione – come detto – incentrato su motivi di violazione di legge e per questioni di fatto, escluse quelle relative a valutazione estimativa ed alla misura delle pene pecuniarie.
Ma al di là delle espressioni letterali della norma, per l’esattezza l’art. 26 del D.P.R. n. 636/72, e secondo una giurisprudenza ormai consolidata della stessa Corte di Cassazione, il giudizio che si svolge dinanzi alla Commissione Centrale non è semplicemente un giudizio di annullamento e di pura legittimità, bensì un giudizio di merito di terzo grado a cognizione piena.
In definitiva, le limitazioni previste dalla normativa, relativamente alla cosiddetta estimazione semplice ed alla misura delle pene pecuniarie, riguardano i motivi, cioè l’ambito della “cognitio”, ma non l’oggetto del giudizio, per cui la Commissione Centrale è tenuta a deliberare nel merito la fondatezza della pretesa tributaria, intesa nel suo complesso, pervenuta al suo esame.
Tale caratteristica, addirittura, identifica una giurisdizione della Commissione Centrale, se possibile, anche più estesa e completa rispetto alla stessa Corte di Cassazione, polo finale, ora come allora, del processo tributario, che può essere interessata solo per motivi di legittimità.
In definitiva non può non riconoscersi che le controversie, sotto l’aspetto tipicamente processuale, devolute alla Commissione Centrale, hanno una totale assimilabilità, salvo la peculiarità della materia trattata, con i provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria ordinaria, con applicazione, tra l’altro, di eguali garanzie di tutela sia per l’Amministrazione finanziaria che per il cittadino – contribuente.
In questo quadro dalla cornice così ben marcata, è naturale e conseguente che una volta messa in condizione di operare, la Commissione Centrale abbia esercitato ed eserciti una funzione preminente per il formarsi di una “sicura” giurisprudenza tributaria e per l’evoluzione stessa di una materia tanto dinamica come quella fiscale, assumendo in virtù dell’apporto dei suoi componenti una posizione di assoluto prestigio e di sicuro riferimento.
A questo proposito, possiamo ricordare che i componenti della Commissione Centrale, nominati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per le finanze, sono scelti tra i magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti (con qualifica non inferiore a consigliere per queste ultime due categorie), tra gli avvocati dello Stato, con qualifica non inferiore a sostituto avvocato generale, tra i professori universitari di ruolo di materie giuridiche o economiche, purché non iscritti in albi professionali, ancora, tra i Direttori Generali e gli Ispettori Generali dell’Amministrazione finanziaria, i quali per svolgere la loro funzione giudicante interrompono definitivamente ogni rapporto funzionale con l’Amministrazione di appartenenza ed, infine, nei limiti di un sesto dei componenti complessivi, tra gli avvocati iscritti da almeno dieci anni all’albo per il patrocinio presso le giurisdizioni superiori e che rinuncino all’iscrizione all’albo professionale.
Dette estrazioni e qualificazioni professionali dei componenti della Commissione Centrale (articolata in n. 27 Sezioni giudicanti per un totale generale di n. 189 membri, più n. 1 Presidente della Commissione Centrale stessa), non possono non far considerare gli stessi come Collegi “perfetti”, ma non certo solo dal punto di vista numerico, bensì in quanto formati da membri della più alta competenza e professionalità sapientemente diversificate, non riscontrabili, all’attualità, in nessun altro Collegio giudicante.
Poter “riunire” nella medesima aula di udienza, allo stesso tavolo, ad esempio, un Presidente di sezione della Corte di Cassazione, un Presidente del Consiglio di Stato, un Avvocato Generale dello Stato, un Dirigente dello Stato che ha svolto funzioni di Direttore Generale presso l’Amministrazione finanziaria ed un Professore universitario di chiara fama, consente di aprire la fattispecie tributaria rimessa alla cognizione della Commissione Centrale, ad uno “spettro” di 360 gradi. E ciò equivale a considerare e, poi, ad approfondire amalgamandoli gli aspetti di stretta legalità con quelli della procedura coinvolti, attribuendo ancora rilevanza alle implicazioni che nascono dallo svolgimento effettivo dei fatti e dai comportamenti tenuti dalle parti in causa, in modo da poter estrapolare ed assegnare il giusto rilievo anche ai non meno importanti principi generali di equità e di buona fede.
Può essere significativo menzionare, in quest’ottica, quanto riscontrato da un Autore come De Mita che ha avuto modo di affermare, assai lucidamente, che “nella materia tributaria si rileva lo scontro tra classi protette e classi non protette, c’è confusione fra diritto e politica, fra sindacato e partiti, fra sindacati e sindacati, fra questi e il Parlamento, sempre più ridotto a ruolo di notaio di scelte fatte in altra sede” [3].[3] Enrico De Mita, “Termini della giustizia fiscale”, in Atti della prima sessione del Seminario Permanente di Etica e Democrazia fiscale – Treviso, 13 maggio 1994, allegato a “il fisco”, n. 42 del 21 novembre 1994.
Ebbene, quale migliore opportunità in questo coacervo di principi etici, politici ed economici, che opportunamente integrati dovrebbero creare i presupposti per una “giustizia fiscale” effettiva, non relegata, ossia, a mere dichiarazioni di intento e di buoni propositi, se non quella di cogliere il significativo contributo che la Commissione Centrale può riuscire a garantire, procedendo sulle direttrici di fondo già individuate negli anni ’50 da Ezio Vanoni.
Partendo dal presupposto che lo Stato democratico è un insieme di diritti e doveri e fra questi rientra senz’altro il “dovere tributario”, le condizioni essenziali perché il sistema tributario possa assolvere ai suoi compiti primari sono, in concreto, estremamente semplici: l’imposta deve essere sopportabile ed il meccanismo che la determina facilmente comprensibile, il sistema tributario deve fondarsi su un rapporto di fiducia e collaborazione tra cittadino e Fisco, l’Amministrazione deve infine essere messa nella condizione di valutare i propri errori.
Platone fa dire a Socrate: “In tutte le cose a quelli che voglion bene decidere uno è il principio, ed è che sappiano su che debbano decidere; altrimenti è necessario errare assai” [4].[4] Platone, “Dialoghi – Il Fedro”, Cap. XIV.
4. Al quasi unanime consenso per la scelta operata dal legislatore di eliminare il terzo grado di giudizio costituito dalla Commissione Centrale, una della poche voci di dissenso che si levarono, in occasione dell’emanazione del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, riguardava la constatazione che in assenza del “filtro” operato dalla Commissione Centrale stessa, si sarebbe fatto più alto il rischio di un congestionamento di controversie fiscali davanti alla Corte di Cassazione, esclusivo “terminale” del processo tributario di nuovo modello.
Previsione questa fin troppo “scontata”: valgano le seguenti indicative cifre, elaborate con un riferimento temporale di n. 7 annualità, e precisamente dal 1990 al 1996; ebbene, in tale arco di tempo, a fronte di n. 44.111 decisioni complessivamente emesse dalla Commissione Centrale, escludendo ovviamente le ordinanze, i ricorsi per cassazione, ai sensi dell’art. 360 del cod. proc. civ., avverso le decisioni stesse, ammontano complessivamente a n. 2.729, pari ossia al 6,19% del totale ed, ancora, di questi ricorsi n. 1.981 sono stati proposti dall’Amministrazione finanziaria (pari al 72,59%) ed i restanti n. 748 dai contribuenti (pari al 27,41%), ulteriore dato questo che già da solo lascia da pensare, e non poco!
Non disponiamo ancora di dati precisi per quanto riguarda la percentuale d’incidenza dei ricorsi prodotti per cassazione avverso le sentenze emesse dalle Commissioni Regionali, ma è fuor di dubbio che la stessa all’atto pratico sarà ben altra che appena il 5,50% complessivo registrato per le n. 6.449 decisioni emesse dalla Commissione Centrale per l’anno 1996!
Di solito, quando le cifre ed i dati esposti sono di per sé sufficientemente chiari si suole dire che si commentano da soli, in tale circostanza riteniamo addirittura superfluo ricorrere anche a questa espressione.
Si paventa, con sempre maggiore frequenza, il rischio paralisi per il contenzioso tributario, sull’onda degli sviluppi normativi, ben noti, dettati dai lavori della Bicamerale che tenderebbero alla soppressione delle Commissioni Tributarie, ebbene pensiamo che la paralisi sia comunque “dietro l’angolo”, indipendentemente dai lavori della Bicamerale e relativi sviluppi: basta aspettare le conseguenze della marea montante dei ricorsi in cassazione avverso le sentenze emesse dalle Commissioni Regionali!
E né vale argomentare che dati i “deterrenti”, quali la complessità della procedura, i tempi di attesa ed anche il costo non indifferente, il ricorso in cassazione possa essere considerato quale sorta di soluzione del tutto residuale; prolungare comunque “l’iter” contenzioso è iniziativa che ha sempre “pagato” (leggasi aspettativa di condoni e sanatorie, possibilità di interventi legislativi più favorevoli, minore “resistenza”, per così dire, della parte avversa in un contesto che privilegia la stretta interpretazione delle norme…..) e che, perciò, sempre si registrerà a prescindere da ogni schermo frapposto.
5. Con l’articolo 19 della recentissima Legge 8 maggio 1998, n. 146 pubblicata nel Supplemento della Gazzetta Ufficiale del 14 maggio scorso, il termine per la cessazione dell’attività della Commissione Centrale, già previsto per il 31 dicembre di quest’anno, è stato praticamente prorogato sine die, collegandolo all’atto dell’esaurimento dei ricorsi pendenti.
Questi sono valutati complessivamente nell’ordine di circa n. 500.000, ma oltre al loro progressivo smaltimento c’è da considerare ulteriormente che la Segreteria della Commissione Centrale sarà chiamata, a breve a trasmettere formale comunicazione a tutte le parti in causa (e cioè, uffici finanziari e contribuenti), se intendano presentare istanza di trattazione del ricorso pendente, non prodotta questa quando dovuto, ed assegnando nel contempo un termine utile di risposta non inferiore ai sei mesi.
Tale adempimento, inderogabile, nasce dal contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 111 del 16 aprile scorso, che ha dichiarato, in sintesi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, comma 2, secondo periodo, del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni, nella parte in cui non prevede che “il termine per l’istanza di trattazione decorra dalla data della ricezione dell’avviso dell’onere di proposizione dell’istanza stessa”.
Secondo i primi dati sommariamente raccolti, sembra di poter quantificare in circa n. 200.000 i giudizi ancora pendenti, per i quali agli atti dei rispettivi fascicoli non risulta prodotta da nessuna delle parti, l’istanza di trattazione necessaria per la prosecuzione del giudizio.
La conclusione di tutto questo è che non siamo troppo lontani dal vero se ipotizziamo una durata dell’attività della Commissione Centrale forse superiore a quella delle stesse Commissioni Provinciali e Regionali di nuovo “conio” (passatemi il termine!).
6. Ad ulteriore riprova della vitalità dell’attuale impegno della Commissione Centrale, si può segnalare che il 6 marzo scorso si sono riunite le Sezioni Unite che, come è risaputo, presiedute dal Presidente della Commissione Centrale, svolgono udienza qualora si verifichi contrasto giurisprudenziale tra diverse sezioni o se si tratta di decidere su questioni di massima di particolare importanza.
Tra le questioni di diritto sollevate nella richiamata udienza, il Consesso ha esaminato, tra l’altro, il criterio di tassazione, ai fini del tributo di registro, del verbale di conciliazione giudiziale, in caso di separazione tra coniugi, contenente il trasferimento di una quota immobiliare; la deducibilità dell’ILOR dal reddito determinato ai fini dell’IRPEG, senza l’imputazione del relativo onere nel conto economico e se in caso di successione in linea retta, la detrazione dall’imposta di successione dell’INVIM pagata sugli immobili compresi nell’asse ereditario, va effettuata con riferimento all’INVIM calcolata in via teorica ed astratta, senza, cioè, la riduzione del 50%, oppure con riferimento all’INVIM effettivamente dovuta dagli eredi nei confronti dell’Erario.
Come si può facilmente intuire, trattasi di questioni di particolare rilievo che grazie all’apporto delle Sezioni Unite della Commissione Centrale potranno avere sicuro “approccio” interpretativo.
7. E’ tempo ora di arrivare alle conclusioni; che saranno rapidissime.
Possiamo ritenere azzardata, riprendendo quella linea di tendenza emersa già in epoca pre – riforma tributaria degli anni ’70, la proposta di creare un organismo giurisdizionale specializzato in materia tributaria ed inserito, magari come Sezione “speciale”, presso la Corte di Cassazione e che possa occuparsi, in qualità di terzo giudice a tempo pieno, esclusivamente di tutti i tributi previsti dal nostro ordinamento?
Tale Sezione potrebbe facilmente essere “ricavata” dalla stessa attuale Commissione Tributaria che pur continuando a decidere i ricorsi ancora giacenti fino al loro esaurimento potrebbe contemporaneamente occuparsi delle vertenze demandate, dopo la data “spartiacque” del 1° aprile 1996, alla Corte di Cassazione avverso le sentenze della Commissione Regionale.
Stiamo vivendo la stagione delle riforme generali e generalizzate, la ricerca dell’efficacia e dell’efficienza pervade positivamente ogni ganglio delle attività pubbliche, l’individuazione degli obiettivi da raggiungere e soprattutto del modo migliore per raggiungerli sono al primo posto nella pianificazione e programmazione di ogni piano di intervento: tantoché ed in verità, la proposta appena avanzata non sembra davvero più temeraria o campata in aria di tante altre!
Anzi, a ben vedere i relativi costi e modelli di organizzazione, riservando ad altra occasione il compito di esaminarli compiutamente, non sembrano neanche proibitivi od insuperabili, tenuto conto delle disponibilità finanziarie ed operative sulle quali poter contare, soprattutto in considerazione che l’organismo proposto, chiaramente mutatis mutandis e lasciando il diritto di scelta ai componenti, praticamente già esiste, potendo considerare tale la Commissione Tributaria Centrale.
Non va mai dimenticato, a definitivo corollario, che il cittadino – contribuente ha diritto ad una tutela giurisdizionale piena e che il relativo procedimento deve iniziare e concludersi in tempi brevi, ma dire questo significa soprattutto che si ha diritto ad un giudice vero, preparato ed a tempo pieno [5].[5] Francesco Moschetti, “Perché oggi il fisco? E come, nella società post – industriale – Per un superamento della “specialità” del diritto tributario”, in Atti della prima sessione del Seminario Permanente di Etica e Democrazia fiscale – Treviso, 13 maggio 1994, allegato a “il fisco”, n. 42 del 21 novembre 1994.
Osservava lo scrittore del III sec. a. C. Demofilo, “Soltanto al termine della corsa, il vincitore riceve il suo premio; è solo nel pieno dell’età matura che si coglie la palma della saggezza” [6].[6] Demofilo, “Sentenze” – XV.
Grazie
Brescia, 22 maggio 1998 Domenico Caputo
Ricorsi per cassazione avverso le decisioni della commissione tributaria centrale
Annualità 1990:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 8692
- Ricorsi per cassazione: 706
- Percentuale d’incidenza: 8,12%
Annualità 1991:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 9178
- Ricorsi per cassazione: 574
- Percentuale d’incidenza: 6,20%
Annualità 1992:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 7013
- Ricorsi per cassazione: 354
- Percentuale d’incidenza: 5,04%
Annualità 1993:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 3794
- Ricorsi per cassazione: 202
- Percentuale d’incidenza: 5,30%
Annualità 1994:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 4509
- Ricorsi per cassazione: 302
- Percentuale d’incidenza: 6,69%
Annualità 1995:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 4476
- Ricorsi per cassazione: 231
- Percentuale d’incidenza: 5,10%
Annualità 1996:
- Decisioni emesse dalla Commissione Tributaria Centrale: 6449
- Ricorsi per cassazione: 360
- Percentuale d’incidenza: 5,50%
Annualità 1990:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 519 – 73,52%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 187 – 26,48%
- Totali: 706 – 100%
Annualità 1991:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 382 – 66,50%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 192 – 33,50%
- Totali: 574 – 100%
Annualità 1992:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 317 – 89,55%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 37 – 10,45%
- Totali: 354 – 100%
Annualità 1993:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 145 – 71,70%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 57 – 28,30%
- Totali: 202 – 100%
Annualità 1994:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 222 – 26,50%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 80 – 73,50%
- Totali: 302 – 100%
Annualità 1995:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 160 – 69,20%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 71 – 30,80%
- Totali: 231 – 100%
Annualità 1996:
- Ricorsi ufficio e percentuale: 236 – 65,60%
- Ricorsi contribuente e percentuale: 124 – 34,40%
- Totali: 360 – 100%