RELAZIONE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA

Porto a tutti Voi il saluto del Rettore dell’Università di Verona.

L’occasione celebrativa costituisce un momento per svolger anche alcune riflessioni sul funzionamento della giustizia tributaria, nell’auspicio di una sua sempre maggiore qualità.

Molte le questioni sul tappeto. Testimonianza che il processo è vivo.

1. Tutela cautelare in secondo grado

Una questione del tutto aperta e sulla quale mi pare ci sia ancora ampio spazio per un lavoro interpretativo delle Commissioni volto a rendere pie­namente operante il sistema sembra essere quella della tutela cautelare in secondo grado.

Sul punto, come a tutti noto, la Corte Costituzionale sulla base di un’in­terpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 49 del D.lgs. n. 546/92 ha ritenuto ammissibile, anche nel rito tributario, la sospensione delle sen­tenze ai sensi dell’art. 373 c.p.c. [Corte Costituzionale, ordinanza n. 217 del 17 giugno 2010 – ud. del 9 giugno 2010.]

Per la Corte, l’inapplicabilità al processo tributario – in forza del citato art. 49 – della regola, sostanzialmente identica, contenuta nell’art. 337 c.p.c. e nell’art. 373, co. 1, primo periodo, c.p.c. (secondo cui l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa), non compor­ta necessariamente l’inapplicabilità anche delle “eccezioni” alla regola con­tenute nell’art. 373, co. 1, secondo periodo, c.p.c. (a norma del quale il giu­dice che ha pronunciato la sentenza impugnata può, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno, disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa).

Da questa impostazione la Corte fa discendere la conseguenza che il primo comma dell’art. 49 del d.lgs. n. 546/92 non esclude di per sé la sospendibilità ope iudicis dell’esecuzione della sentenza di appello impugna­ta, nella fattispecie, per (la) cassazione ai sensi dell’art. 373, co. 1, secondo periodo, c.p.c.

Sul piano della ricostruzione dogmatica può forse opporsi alla prospet­tazione della Corte che la soluzione formulata non appare perfettamente rispondente al complessivo quadro sistematico.

Nel ns. sistema la sentenza resa dal giudice tributario sull’impugnazione dell’atto impositivo o esattivo non costituisce titolo esecutivo. Invero sulla base della sola sentenza non può essere notificato un atto di precetto né può farsi luogo ad un pignoramento. Occorre sempre il ruolo, che è, appunto, il titolo esecutivo.

Ancora, sempre tenendo conto delle caratteristiche del sistema, occorre ricordare che è l’atto di imposizione, e non le sentenze sopravvenute, il tito­lo legittimante l’iscrizione a ruolo. [Corte Cost. Ord. n. 119 del 5 aprile 2007 – ud. 21 marzo 2007, con nota di M.L. SERRA, GT, 2007, 10, pp.. 845 ss..] Ne deriva che la tutela cautelare va indi­rizzata alla sospensione degli effetti dell’atto all’origine. [ S.M. MESSINA, Corr. trib., 2007, 38, pp. 3077 ss..]

Dalle evidenziate differenze strutturali (nel processo civile la sentenza costituisce titolo esecutivo, nel processo tributario rileva, invece, l’atto impositivo) discende sul piano del sistema, l’inadeguatezza del ricorso, nel caso di specie, alla funzione integratrice del processo civile rispetto a quello tributario.

In altri termini mancherebbe, de iure condito, e ragionando sul piano dei principi peculiari del sistema tributario, lo spazio per una sospensione del­l’esecuzione della sentenza di primo o di secondo grado che abbia dato ragione all’ente impositore o all’agente della riscossione, né sarebbero appli­cabili, in ragione del divieto di cui all’art. 49 del d.lgs. n. 546/92, l’art. 337 c.p.c. e gli artt. 282, 373, 401 e 407 c.p.c. [G. GLENDI, GT, 2011, 1, pp. 75ss..].

1.1 Sul piano applicativo sembra prospettarsi un quadro articolato fra le Commissioni tributarie regionali. Taluna, infatti, aderisce al percorso logi­co argomentativo fondato sulla dicotomia tra “regola” ed “eccezione”. [v. Comm. trib. reg. Piemonte, ordinanza 10/04]. Talaltra concede la sospensione senza alcun riferimento alla decisione della Corte Costituzionale. [Comm. trib. reg. Lazio ordinanza 10/136]. Altra ancora continua a reputare inammissibile la tutela cautelare in secondo grado ritenendo che la Corte Costituzionale, con la sentenza citata, non abbia esaminato puntualmente i dubbi di costituzio­nalità sollevati dal ricorrente. [Comm. trib. reg. Lombardia, sez. Brescia, ordinanza 10/26].

La Commissione che si muove nella prospettiva della Corte Costituzionale si trova, poi, ad individuare i presupposti e i profili applica­tivi per la sospensione dell’esecuzione della sentenza in caso di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 373 c.p.c.

Sul punto è possibile notare già l’esistenza di taluni rischi sul piano interpretativo. In specie, nell’ordinanza citata la Commissione afferma che l’ammissibilità dell’istanza di sospensione è subordinata al fatto che sia in atto un’esecuzione coattiva. Sembra cioè che secondo i giudici pie­montesi per la sospensione occorre che ci sia un pignoramento, che costi­tuisce l’atto iniziale della esecuzione forzata. Occorre in contrario rileva­re che è ormai prevalente tanto in dottrina [S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, 2, Milano 1996, p. 257.] che in giurisprudenza [Fra le tante App. Salerno, 21 luglio 2003, in Giur. It., 2/2004, p. 210 con nota di L. LEGRINI.] l’opi­nione che ammette l’esperibilità del rimedio cautelare previsto dall’art. 373 c.p.c, ancor prima ed a prescindere dall’essere già stato posto in essere il primo atto dell’esecuzione. Questo perché la ragione dell’inibi­toria ex art. 373 è quella di evitare che, in attesa della formazione del giu­dicato, l’attuazione concreta del diritto della parte che risulta vincitrice dalla sentenza determini un danno grave e irreparabile al soccombente», non vi è dubbio che «questo rapporto di causalità tra esecuzione e pre­giudizio qualificato del debitore può essere pronosticato prima dell’atti­vazione della procedura esecutiva e, quindi, il rimedio rappresentato dal­l’inibitoria è utilmente adottabile in qualsiasi momento successivo alla formazione del titolo esecutivo. [C. GLENDI, op. cit., pp. 77 e 78].

Se, dunque, per il processo civile non si ritiene condivisibile la tesi secondo cui ai fini della sospensione debba necessariamente essere inizia­ta una procedura esecutiva non si comprende quale sarebbe il dato di riferimento per applicare una così rigoristica interpretazione nel proces­so tributario. D’altra parte l’unico dato normativo di riferimento, in tale processo, è l’art. 47, il quale non subordina certo la concessione della sospensione alla intervenuta esecuzione del pignoramento a carico del contribuente.

Altro aspetto importante in questa ordinanza attiene all’individuazio­ne dei presupposti del periculum e del fumus. Ai fin della configurabilità del danno grave ed irreparabile, secondo la Commissione tributaria regionale per irreparabilità deve intendersi quell’effetto che sia insuscet­tibile di riparazione per equivalente. Ma questa prospettazione interpre­tativa dell’art. 373 c.p.c. appare ampiamente superata nel processo civi­le, giungendosi, ormai, ivi, ad una equiparata fruibilità della tutela d’ur­genza ex art. 700 c.p.c. e della sospensiva ex. art. 373 c.p.c. anche laddo­ve oggetto della controversia sia una somma di denaro, salvo a verificare in concreto se l’esecuzione presenti una situazione di pregiudizio insu­scettibile di essere pienamente soddisfatta nelle forme risarcitone per equivalente. [E. VULLO, “Considerazioni in tema di irreparabilità del danno ai fini della sospensione dell’essecuzione delle sentenze d’appello”, in Giur. it. n. 4/1996, I, 2, col. 254.] Alla luce di questa interpretazione dell’art. 373 c.p.c. appare inadeguata la posizione assunta nell’ordinanza citata. Seguendo l’impostazione assunta dalla Commissione, poiché nel processo tributa­rio si tratta sempre di somme da riscuotere, si giungerebbe al paradosso che la tutela cautelare in questa fase non esisterebbe più. D’altra parte, poiché i titoli esecutivi da sospendere, come esposto non sono le senten­ze ma gli atti amministrativi, l’art. 373 c.p.c. non può operare diretta­mente. Ne deriva che ai fini della inibitoria, in pendenza di giudizio di terzo grado, il requisito della gravità ed irreparabilità non potrà che esse­re quello risultante dalla elaborazione dottrinale e giurisprudenziale con riferimento all’art. 47 D. lgs. 546/92.

Quanto al fumus non mi pare, anche qui, che si possa prescindere com­pletamente da una valutazione della probabilità di fondatezza del ricorso per Cassazione (come invece, sembra sostenere la ordinanza citata). Si tratta di un aspetto evidentemente assai delicato e da approfondire.

Un’ultima notazione riguarda la rilevanza della avvenuta iscrizione a ruolo del processo per Cassazione ai fini della sospensione. Nel caso la Commissione ritiene che l’art. 373 c.p.c. condiziona l’ammissibilità del­l’istanza alla prova dell’avvenuta iscrizione del processo di cassazione nel ruolo generale della Corte. Come è stato osservato in dottrina [Glendi, op. loc. ult. cit.] il rinvio all’art. 131-bis delle disp. att. c.p.c, appare, rispetto alla comminatoria di inammissibilità dell’istanza, assolutamente errato posto che tale enunciato, littera legis, richiede il deposito del ricorso presso la cancelleria della Corte di cassazione come elemento propedeutico ai fini della decisione, non (certo) ai fini della presentazione dell’istanza. Si tratta, dunque, non di con­dizione di ammissibilità dell’istanza ma di sua decidibilità senza la previa dimostrazione del deposito del ricorso per Cassazione.

1.2 Sembra, dunque, prospettarsi una situazione assai dinamica e con qualche contrasto nelle posizioni delle Commissioni tributarie regionali. Ma ciò che sembra emergere, alla luce delle evidenziate incoerenze inter­pretative, è che probabilmente finisce con l’essere forzato il percorso del­l’interpretazione costituzionalmente orientata con riferimento all’art. 49 del D.Lgs. n. 546/71992 e degli artt. 337, primo comma, 373 e 283 c.p.c.

La verità è che la Corte é stata chiamata a giudicare della legittimità costituzionale dell’art. 49 e non dell’art. 47, D. Lgs. n. 546/1992.

Ciò che occorre cogliere, ancora una volta, è che la Corte sollecita una lettura del sistema costituzionalmente orientata e invita il giudice a trovare la soluzione interpretativa conforme, piuttosto che sollevare la questione di illegittimità costituzionale .

In questa prospettiva l’art. 373 c.p.c. potrebbe tutt’al più costituire un parametro normativo di riferimento utilizzabile, “in quanto compatibile”, con un sistema legislativo imperniato sul dato fondamentale che le senten­ze dei giudici tributari non costituiscono titolo esecutivo. E sarebbe, piutto­sto auspicabile una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 47, 1° e 7° co., d.lgs. n. 546/92 e dell’art. 19, 2° co., d.lgs. n. 472/97, alla luce degli artt. 3, 24 e 111 Cost.

1.3 I parametri della valutazione sulla pretesa illegittimità costituzionale degli istituti processuali, alla luce della riforma del diritto costituzionale, di cui alla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (in vigore dal 7 gennaio 2000), sono profondamente mutati.

Il legislatore costituzionale ha voluto, inequivocabilmente, introdurre nell’art. 111 Cost. una vera e propria clausola generale ed autonoma, desti­nata a concentrare in sé le più importanti garanzie costituzionali in materia di giurisdizione, in forza delle quali, nel nostro sistema processuale, deve trovare ingresso ogni facoltà utile ad assicurare una completa ed effettiva tutela delle ragioni delle parti.

Le regole del contraddittorio, della parità tra le parti nel processo (in ogni sede giurisdizionale) e dell’imparzialità del giudice, prima desumibili solo in via interpretativa dalla stessa Costituzione, hanno trovato esplicito riconoscimento nel secondo comma del citato art. 111, divenendo una regola fondamentale del sistema, qualificata dallo stesso legislatore come inderogabile. [Secondo Gallo, «Verso un “giusto processo” tributario », in Rass. trib., 2003, pag. 11, la consacrazione costi­tuzionale del principio del «giusto processo» avrebbe «l’effetto di fissare una direttiva interpretativa generale di carattere assoluto e inderogabile, che sintetizza le tre regole generali del contraddittorio, della parità delle armi e della imparzialità e terzietà del giudice». E dette regole sarebbero diventate, esse stesse, norme costituzionali, risul­tando oggettivizzate nell’ordinamento fino a creare un sistema normativo costituzionale sganciato ed autonomo rispetto agli artt. 3 e 24 Cost. e, comunque, integrativo di tali articoli. In conclusione, i principi del «giusto pro­cesso» avrebbero valenza innovativa e un riconoscimento costituzionale esplicito e diretto non più «deducibile» da altre disposizioni di pari rango.]

Il baricentro dell’analisi della legittimità costituzionale delle disposizioni su «ogni processo» dovrebbe, dunque, ora rinvenirsi, non negli artt. 24 e 3 Cost., ma nell’art. 111, comma 2, Cost.

A tal proposito, autorevole dottrina ha evidenziato che l’entrata in vigo­re del nuovo art. 111 dovrebbe rendere più difficile per la Corte giustifica­re la discutibile legittimità di molte norme richiamandosi, sia ai principi della «tutela differenziata», della «specificità della materia» e della «modulabilità e diversificabilità» dei procedimenti giurisdizionali, sia «al noto adagio “assolutorio” della discrezionalità legislativa non (manifestamente) irragio­nevole». Secondo detta impostazione, per confermare la sua giurisprudenza conservativa, essa dovrebbe sostenere che «nulla è cambiato», [Così, Gallo, op. loc. ult. cit., il quale evidenzia che, mossa dalla preoccupazione di non mettere in crisi l’attua­le assetto della giustizia tributaria, la Corte potrebbe continuare «a percorrere una siffatta via, improntata ad una grande discrezionalità valutativa e ispirata appunto alla tesi della portata meramente ripetitiva dell’art. 111».] e cioè che l’art. 111 si è limitato ad evidenziare in modo esplicito principi già implici­ti negli artt. 24, 3 e 101 Cost., senza innovare rispetto ad essi. [Gallo, op. loc. ult. cit., secondo il quale la Corte costituzionale avrebbe serie difficoltà – con riferimento ai prin­cipi del contraddittorio e della «parità delle armi» – a limitare, come ha fatto finora, la sua indagine alla sola com­parazione della ragionevolezza delle discrepanze procedurali rispetto ad altri principi costituzionali (tutela del diritto di difesa e uguaglianza) e ad altri modelli di processo].

Nel modello di «giusto processo », configurato dai primi due commi del­l’art. 111 cit., il problema non è quello della liceità di differenziazioni fra i processi. Le specificità sono, infatti, «consentite» ma a condizione che siano «ragionevoli» ossia che le norme, che le prevedono, siano conformi ai cano­ni fondamentali del giusto processo. In caso di difformità rispetto al model­lo le specificità si tradurrebbero, di fatto, in anomalie costituzionalmente illegittime.

In relazione alla tutela cautelare nei gradi di giudizio successivi al primo, non si tratta di verificare se esista una disparità di trattamento censurabile ex artt. 3 e 24 Cost. in rapporto ad analoghi istituti disciplinati in altri riti ed in particolare in quello processuale civile, ma di valutare se le norme sul processo tributario rispettino le regole previste dall’art. 111 Cost.

Sotto tale profilo, dunque, potrebbero non farsi discorsi sull’identica natura delle situazioni giuridiche soggettive tutelande [Secondo Gallo, op. loc. ult. cit., se il contribuente è titolare di un diritto soggettivo (e cioè di un diritto non degradabile a mero interesse dall’esercizio della potestà amministrativa di imposizione) la garanzia giurisdiziona­le dovrebbe essere identica a quella di ogni altro diritto soggettivo, indipendentemente dalla sede giurisdizionale cui è affidata la tutela e dalla specificità del rapporto sostanziale cui tale diritto inerisce. Solo aderendo ad una con­cezione autoritaria della potestà di imposizione dello Stato si potrebbe sostenere che la posizione soggettiva dei contribuenti, correlata a tale potestà, vada tutelata in modo meno intenso degli altri diritti soggettivi. Ma così non sarebbe, anche in applicazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.] e sulla necessità che ad essa debba corrispondere una «parificata» tutela giurisdizionale; ma la verifica rispetto al modello diverrebbe tutta interna al sistema tributario.

In questa prospettiva si pone, con maggiore forza, l’esigenza di verifica­re se l’assenza di tutela sia una specificità costituzionalmente giustificabile. E, ove si ravvisassero le possibili ragioni nella prevalente esigenza dello Stato di reperire i mezzi per l’esercizio delle sue funzioni ed in una previa valuta­zione del contemperamento degli interessi espressa dall’esistenza di un siste­ma di riscossione frazionata, tali argomentazioni, già poco persuasive, appa­rirebbero non convincenti anche alla luce del modello ex art. 111 Cost.

Quanto all’affermazione di un interesse prevalente in capo all’ammini­strazione finanziaria, occorre osservare che nella nostra Costituzione non esiste un interesse tutelato in maniera preminente rispetto a quello del con­tribuente, ovvero non è possibile rinvenire un interesse fiscale alla riscossio­ne dei tributi prevalente nella scala dei valori costituzionali.

Il dovere alla contribuzione del contribuente e l’interesse alla percezione dei tributi da parte dell’Erario non costituiscono due valori contrapposti, diversamente tutelati dal legislatore, ma rappresentano due diverse espressio­ni del medesimo principio, ossia quello del «giusto tributo» di cui all’art. 53 Cost. Detta disposizione enuncia «uno tra i doveri pubblici fondamentali, consistente nel dovere tributario: ed in questo senso e per questa parte già la disposizione sarebbe superflua, poiché quel dovere troverebbe già … il pro­prio titolo costituzionale nel combinato disposto degli artt. 54 e 23 Cost». [Ovvero nel principio dell’art. 2, secondo comma, Cost., cfr. Crisafulli, «In tema di capacità contributiva», in Giur. cost., 1965, pag. 857, in particolare pag. 862. L’Autore, criticando l’orientamento espresso dalla Corte costi­tuzionale, nella sentenza 4 aprile 1963, n. 45, sostiene che «il significato più pregnante» dell’art. 53 consiste nel­l’estensione ai non cittadini del dovere alla contribuzione e nell’individuazioni dei limiti entro i quali la potestà di imposizione può legittimamente esplicarsi; e niente nell’art. 53 indica una prevalenza dell’interesse fiscale sul­l’ordine dei valori costituzionali. Alla stregua di tali principi dovrebbe, a suo dire, essere valutata l’ammissibilità nell’ordinamento di molti dei privilegi del Fisco.]

Non sembra esistere, dunque, un principio che giustifichi una differen­za di posizioni fra contribuente e amministrazione finanziaria.

La riscossione frazionata, poi, è prevista a tutela non della posizione del contribuente ma solo dell’Autorità finanziaria. [Cfr. in tal senso La Rosa, Principi di diritto tributario, II ed., Torino, 2006, pag. 377.] Negare, quindi, tutela al contribuente avverso detta riscossione, laddove essa possa recargli un peri­colo, equivarrebbe ad attribuire una posizione prevalente all’amministrazio­ne finanziaria non giustificata e, dunque, in palese violazione dell’art. 111 Cost, che assicura la parità delle parti.

Ove si volesse valorizzare il rilievo secondo cui l’art. 111 Cost. è disposi­zione di diretta ed immediata applicazione, alla luce dei principi da essa recati, l’art. 61 del D.Lgs. n. 546/1992 potrebbe essere interpretato nel senso che il giudice di secondo grado ha gli stessi poteri di quello di primo, compreso quello di sospendere l’efficacia esecutiva dell’atto ex art. 47.

Così opinando, potrebbe giungersi a giustificare l’immediata operatività della tutela cautelare anche nella fase di appello.

2. Brevi riflessioni sull’immediata applicabilità della compensazione

Da ultimo occorre brevemente notare come, di recente, la Cassazione [Cassazione, sent. 24 nov. 2010, n. 23787] sia nuovamente tornata sul tema della compensazione, riprendendo l’affer­mazione della Suprema Corte, [Cassazione, sentenza n. 22872 del 2006] secondo cui la compensazione tra crediti e debiti verso lo Stato è un principio immanente nel nostro ordinamento, anche prima della codificazione con l’art. 8 della legge 27 luglio 2000, n. 212, con talune limitazioni transitorie. E’ evidente qui l’intento di supera­re in maniera definitiva il vuoto della normativa secondaria e di fornire una posizione univoca che risolva le incertezze sul punto. E l’affermazione che la compensazione è un principio generale immanente nel nostro ordina­mento va proprio nel senso di risolvere le incertezze applicative. Per cui si può ritenere che la compensazione possa applicarsi anche al di là delle spe­cifiche e casistiche ipotesi previste. Essendo un principio immanente, riba­dito in maniera generale nello statuto, non può omettersi di darne applica­zione laddove la fattispecie lo consenta, al di là del fatto che vi sia in ipote­si una specifica previsione del legislatore. La Corte, anzi, sembra dare ampia rilevanza proprio alla tendenza del legislatore ad ampliare l’operatività del­l’istituto dandone, così, piena attuazione. In questa prospettiva assume, poi, particolare importanza il richiamo fatto dalla Corte al principio romanistico della bona fides, cui deve ispirarsi il comportamento dell’amministrazio­ne. Il carattere della correttezza deve guidare l’attività amministrativa anche in tema di estinzione dell’obbligazione mediante compensazione, consen­tendone, quindi la più ampia applicazione.

Da queste brevi riflessioni sembra, ancora una volta, emergere non man­cano certamente le questioni su cui i giudici (insieme con noi tutti opera­tori) saranno chiamati a misurarsi.

Ringrazio dell’attenzione e rinnovo a Voi tutti gli Auguri del Rettore, cui associo i miei.

Buon lavoro a tutti noi

Prof. Sebastiano Maurizio Messina