RELAZIONE DELLA ASSOCIAZIONE NAZIONALE TRIBUTARISTI ITALIANI

ALLA RICERCA DI COERENZA TRA NATURA LEGALE DELL’OB­BLIGAZIONE TRIBUTARIA, AUTORITATIVITA’ DEGLI ATTI E OGGETTO DEL PROCESSO TRIBUTARIO

E’ diffusa l’esigenza di una nuova tappa di riforma del processo tributa­rio, ma per far questo gli studiosi devono fare il punto sulla evoluzione in atto del medesimo: verso quale modello stia andando e se sia coerente nel sistema complessivo.

Ci interessa anche l’evoluzione di fatto, perché essa è indicativa della “forza delle cose, di quelle esigenze, di quegli interessi, di quei valori, che il legislatore deve “fotografare” per poi disegnare una riforma con essi coeren­te.

L’evoluzione è, a mio avviso, all’insegna di una certa contraddittorietà.

A. La prima contraddizione (non processuale ma procedimentale, non dovu­ta alla giurisprudenza ma al legislatore) è tra diritto sostanziale ed attuazione dello stesso.

L’obbligazione tributaria è, come noto, obbligazione ex lege. Sul piano sostanziale, attiene al rapporto “norma-fatto”.

Ma la pretesa è poi formalizzata in atti autoritativi:

– autoritativa è l’attività istruttoria (contrassegnata da ordini e poteri uni­laterali);

– autoritativi sono gli atti della fase di accertamento e riscossione, esecuto­ri e dotati (se non impugnati) di effetti preclusivi;

– stessa fase volta ad ottenere il rimborso dell’indebito è stata strutturata in modo da sostituire termini di decadenza a termini di prescrizione del cre­dito “procedimentalizzando” quello che sarebbe un mero rapporto di debi­to-credito. Si è altresì creato forzatamente un atto di imperio: il rifiuto espresso che, se non impugnato, è esso pure dotato di effetto preclusivo. Siamo allora in un sistema, in cui:

– democratico (in quanto, almeno teoricamente, affidato, ex art. 23 Cost., alla volontà parlamentare) è l’aspetto sostanziale dell’an e del quantum debeatur (si deve quanto dovuto per legge);

– “iperautoritaria” è invece la fase attuativa, all’insegna dell’unilateralità, dell’esecutorietà, dell’effetto preclusivo.

E qui emerge l’incoerenza tra un’obbligazione che nello schema teorico deve essere quella “dovuta per legge” ed una obbligazione che nell’applica­zione pratica può essere quella conseguente ad un atto di accertamento (o addirittura ad un atto di riscossione, o ad un rifiuto espresso) illegittimo ma definitivo.

E proprio questo pericolo che l’obbligazione sia quella derivante dall’at­to, anziché quella derivante dalla legge, introduce il secondo tema.

B. La seconda contraddizione è tra autoritatività del procedimento ammi­nistrativo ed evoluzione giurisprudenziale dell’oggetto del processo.

“Chi ha il potere delle armi”, deve essere costretto ad usarle in modo responsabile. “Se puoi sparare, ma spari in modo irresponsabile, devi rispon­dere”.

Così:

– l’atto esecutorio e suscettibile di effetto preclusivo dovrebbe essere emes­so causa cognita e nel rispetto delle forme poste a garanzia della libertà; diversamente, dovrebbe essere annullato;

– i poteri istruttori (a loro volta autoritativi), dovrebbero essere usati nel­l’ambito della legge; altrimenti, dovrebbe essere illegittimo l’accertamen­to conseguente (e comunque dovrebbe essere non utilizzabile una prova acquisita contra legem);

– la motivazione dovrebbe delimitare l’oggetto del processo e il giudice dovrebbe pronunciarsi su quella motivazione; non già confermare l’accer­tamento con una motivazione di creazione giudiziale.

Ma chiediamoci ora se nel diritto processuale vivente esistano questi anti­corpi, questi riequilibri, rispetto all’autoritatività degli atti.

***

In una prima fase, questo rapporto coerente, tra autoritatività degli atti e tutela giudiziaria, si è dato.

E stato affermato che:

– la motivazione dell’atto impugnato delimita l’oggetto del giudizio;

– che la motivazione per rinvio ad atti non disponibili comporta senz’altro annullamento in limine litis dell’atto;

– che la motivazione deve essere in primis fornita dall’Amministrazione finanziaria a se stessa (non è solo questione di art. 24 Cost., ma anche di art. 97 Cost.);

– che le prove illegittimamente acquisite comportano l’illegittimità dell’at­to conseguente (o sono comunque inutilizzabili).

Si è affermata cioè una giurisprudenza comportante l’annullamento del­l’atto immotivato, o fondato su motivazione inconferente, o ancora fonda­to su attività istruttoria illegittima. Una giurisprudenza che, all’autoritatività dell’atto, faceva corrispondere l’annullamento dello stesso se illegittimo.

Ma poi, la forza delle cose ha indotto la giurisprudenza ad attenuare la garanzia della giurisdizione di annullamento e a trasformare il giudizio da “impugnazione-annullamento” a “impugnazione-merito”.

L’atto impugnato, che nella fase del procedimento amministrativo è autoritativo (esecutorio e ad effetto preclusivo), nel processo è stato declas­sato a mero “veicolo di accesso”.

Veicolo di accesso ad un giudizio che ha certamente ad oggetto la “pre­tesa tributaria”.

Ma detta “pretesa tributaria” delimita l’intervento del giudice solo in modo minimale, consentendo a questi di sostituire una propria motivazio­ne alla motivazione originaria dell’avviso di accertamento.

Significative le sentenze della sezione tributaria della Corte di Cassazione del 2005 (21 ottobre 2005, n. 20398; 26 ottobre 2005, n. 20816; 14 novembre 2005, n. 22932), che hanno dichiarato la nullità di comporta­menti di elusione tributaria (dividend washing e dividend stripping), laddo­ve gli avvisi di accertamento erano motivati in termini di simulazione.

Di più; nel 2008 le famose sentenze delle Sezioni Unite del 23 dicem­bre, sempre sulla stessa tematica, hanno confermato le pretese tributarie, originariamente formulate ancora in termini di simulazione, con la nuova argomentazione dell’abuso di diritto. Ivi le Sezioni Unite hanno affermato che se la pretesa tributaria aveva recuperato a tassazione una minusvalenza, solo la minusvalenza delimitava l’oggetto del contendere ma ben poteva essere disconosciuta addirittura dal giudice di Cassazione in termini di abuso di diritto anche se la motivazione dell’avviso di accertamento era for­mulata in termini di simulazione.

In definitiva, assistiamo nella più recente giurisprudenza ad una ricostru­zione dell’atto di accertamento ad opera del giudice.

Sul piano della legalità istruttoria, la giurisprudenza di Cassazione ha ritenuto che il principio di inutilizzabilità della prova nulla riguardi solo il processo penale e non quello tributario (anche se ha ammesso, più volte a Sezioni Unite, che deve essere annullato l’avviso di accertamento fondato su prova acquisita in violazione della disciplina posta a tutela del diritto costi­tuzionale alla libertà di domicilio).

Ma anche le garanzie a fronte di motivazione per rinvio ad atti non dispo­nibili sono state vanificate. Con decreti asseritamente attuativi dello Statuto del contribuente (ma in realtà contrappositivi), nel 2001 si sono riformulati gli articoli 42 DPR 600 e 56 decreto Iva, consentendo la motivazione per rinvio ad atti non disponibili se l’atto a quo sintetizzi il contenuto dell’atto ad quem. Il che è evidentemente illogico nel momento in cui il contribuen­te (nei sessanta giorni a sua disposizione per il ricorso) non può controllare se l’atto a quo abbia adeguatamente rappresentato il contenuto dell’atto ad quem. In altre parole (questa volta per intervento del legislatore e non del giu­dice) si è attenuata (rectius, svuotata) una garanzia che era invece necessario contrappeso all’autoritatività dell’atto. Una garanzia che era necessaria per costringere chi emette l’atto autoritativo a conoscere funditus (esso per primo) tutte le asserite informative su cui il provvedimento si fonda.

***

Come valutare questa evoluzione che sembra più armonica con una con­cezione dell’avviso di accertamento (e degli altri atti impugnabili) come pro­vocatio ad opponendum (atto ad effetti meramente processuali), che non come atto autoritativo (e ad effetti sostanziali)?

Sul piano formale, ci sembra incoerente con la natura di atto autoritati­vo e con le connesse esigenze di imporre un esercizio responsabile del pote­re.

Sul piano sostanziale, è però talora comprensibile in relazione all’esigen­za di accertare l’effettivo credito.

E la rivincita della fonte legale dell’obbligazione, della esigenza di coglie­re quanto dovuto per legge.

Solo che, se ciò può essere coerente rispetto alla tassazione in ragione della legalità e della effettiva capacità contributiva, è certo incoerente rispet­to alle modalità autoritative, e così nel complesso si assiste ad una doppia incoerenza:

– dapprima l’ingessatura in un atto autoritativo di quella che è una obbli­gazione legale;

– poi il declassamento processuale dell’atto autoritativo a “veicolo di acces­so” e la grande comprensione del giudice per le manchevolezze del titola­re del “potere delle armi”.

***

Se l’evoluzione all’insegna del “veicolo di accesso” e di un giudizio di merito che giunge a sostituire la motivazione giudiziale alla motivazione amministrativa ha anche una sua giustificazione di carattere costituzionale (quella di cogliere l’effettiva capacità contributiva ex art. 53 Cost. e l’obbli­gazione dovuta per legge ex art. 23 Cost.) ma nel contempo è incoerente rispetto all’autoritatività dell’atto, allora quali suggerimenti per portare ad una maggiore coerenza l’esigenza di tassazione in base a capacità contribu­tiva, da un lato, e l’esigenza di responsabilizzazione, dall’altro?

Certo una soluzione radicale (a livello legislativo) sarebbe quella di agire sull’atto facendolo davvero diventare mero “veicolo di accesso”, escludendo così l’esecutorietà e l’effetto preclusivo del medesimo. Questa sarebbe la soluzione ottimale, all’insegna di una maggior paritarietà, ma non si può non vedere che recentemente il legislatore ha seguito una strada diversa attribuendo all’avviso di accertamento anche quell’effetto di precetto che originariamente era affidato alla cartella esattoriale.

L’opposta soluzione radicale sarebbe quella di un ritrovato rigore nell’at­tuazione dei principi della “giurisdizione di annullamento”, senza indulgen­ze e sostituzioni giudiziali. Questo non richiederebbe alcun intervento legi­slativo ed è “a portata di mano”, ma può talora dare un senso di insoddisfa­zione sul piano dell’equità del caso concreto.

Tra le due soluzioni, alcuni meri correttivi.

a. Fin da subito si potrebbe operare con un maggior rigore nella richie­sta di un serio contraddittorio anticipato.

Il contraddittorio anticipato dovrebbe essere considerato come elemen­to della formazione del convincimento dell’Ufficio, di cui questo dovrebbe tener conto nella motivazione, cosicché dovrebbe essere annullato l’avviso di accertamento per difetto di motivazione, se questo si limitasse ad un richiamo meramente formale alle ragioni esposte dal contribuente. Invero, le ragioni del contribuente debbono essere in primis vagliate dall’autorità amministrativa, non già delegate senz’altro al vaglio giudiziale.

b. Fin da subito il giudice potrebbe essere più rigoroso nella condanna alle spese, proporzionata all’autorità che la legge conferisce agli atti.

c. Un intervento legislativo per nulla arduo potrebbe altresì avvenire sul­l’art. 47, decreto 546, ancorando la sospensiva giudiziale non più al “danno” (oltretutto qualificato con i tragici toni della “gravità” e “irreparabilità”), ma al “giusto’“, al “fumus boni iuris“.

Subire un atto autoritativo privo di “fumus boni iuris” è già un vulnus che in uno Stato democratico (ove cioè il cittadino conti) non dovrebbe essere consentito.

La formula dell’ordinamento processuale tedesco, della sospensione sem­plicemente per “gravi motivi”, sembra certo più adeguata.

Ma al di là di questi ritocchi, rimane il problema di fondo: non si può pensare al processo se non in coerenza con la disciplina degli atti, oggetto del processo stesso.

Subirne l’autoritatività nella fase procedimentale e “svampirli” a “veicoli di accesso” nella fase giudiziale; consentire il potere delle armi, ma non attuare un giudizio responsabilizzante, è forse evangelico (“non sappia la destra quel che fa la sinistra”), ma ben poco sistematico sul piano giuridico.

D’altronde già i Romani avevano, con l’usuale sinteticità e saggezza, additato la formula corretta: “ubi commoda, ibi incommoda”.

Il commodum dell’atto autoritativo dovrebbe avere l’incommodum di un responsabilizzante giudizio di annullamento.

“Pesi” ed adeguati “contrappesi” sono la regola aurea della democrazia.

Avv. Prof. Francesco Moschetti