La rimessione in termini: un pendolo che oscilla tra errore scusabile ed obblighi informativi delle parti

A cura dell’avv. Martino Verrengia

Una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze si inserisce nell’annoso dibattito sulla configurabilità e sui presupposti applicativi dell’istituto della rimessione in termini nel processo tributario. Il presente scritto, chiariti i termini della questione, mira a fornire spunti operativi in sede contenziosa senza tralasciare le esigenze di economia processuale e le ragioni erariali.

Il caso

Una srl impugnava il diniego di annullamento in autotutela con cui l’Agenzia delle Entrate di Firenze aveva respinto l’istanza presentata per l’annullamento di un ruolo ordinario esecutivo e della relativa cartella di pagamento, emessa dall’Ufficio a titolo di sanzione pecuniaria, per tardivo versamento dell’IVA.

La ricorrente esponeva che nella dichiarazione annuale IVA essa riportava, nel mese di dicembre, un’imposta a debito “provvisoria”, che non versava in quanto dalla stessa dichiarazione annuale scaturiva un’imposta a credito.

Lamentava l’importo eccessivamente elevato della sanzione irrogata a fronte di una violazione meramente formale che non aveva – a detta di parte – cagionato alcun danno all’Erario, visto che non veniva richiesto il versamento di alcuna maggiore imposta.

La srl eccepiva, dunque, l’illegittimità del diniego di annullamento in autotutela per violazione dell’art. 10 dello Statuto del contribuente sia per mancanza di danno erariale, sia per il principio dell’affidamento insorto in essa dal comportamento dell’Ufficio.

Poiché al momento della decisione erano scaduti i termini per l’impugnazione del ruolo e della relativa cartella, la società chiedeva la remissione in termini ai sensi degli artt. 153 c.p.c. e 21 D. Lgs. n. 546/92.

Il principio di diritto

La CTP, premessa la possibilità di impugnazione del diniego di autotutela, conformemente alla prevalente giurisprudenza di legittimità, affronta il tema della rimessione in termini.

Essa osserva come, nel caso di specie, non sia in contestazione la legittimità o meno del procedimento di autotutela, ma soltanto la legittimità o meno della pretesa tributaria contenuta nell’atto ormai definitivo.

Ad avviso dei giudici di prime cure, poiché oggetto di impugnazione non può essere la cartella di pagamento, ormai definitiva perché non impugnata nei termini, l’impugnazione del diniego di autotutela, non censurabile nel merito della pretesa – stante il carattere discrezionale dell’attività amministrativa esercitata dall’Ufficio – è inammissibile, palesandosi essa soltanto come un mezzo per tornare a contestare nel merito la cartella non tempestivamente impugnata.

La Commissione così si esprime: “Quali siano le perplessità che possano sorgere sulla pretesa in esame sotto il profilo ‘sostanziale’ (violazione ‘formale’), rimane il fatto che la mancata impugnazione della cartella è dovuta ad una scelta consapevole della odierna ricorrente, non imputabile all’Amministrazione; scelta di non presentare ricorso nei termini che non è in alcun modo giustificata dal fatto allegato ma non dimostrato dalla ricorrente che “visti i rapporti intercorsi con l’Ufficio successivamente alla presentazione dell’istanza la società ha confidato in buona fede nel suo accoglimento“.

Del resto, è noto che il principio dell’affidamento non può esser richiamato qualora emerga documentazione comprovante l’adempimento, da parte dell’Ufficio, degli oneri informativi posti a suo carico in relazione all’indicazione specifica della pretesa tributaria.

Sul punto, la contribuente afferma che i funzionari avrebbero lasciato intendere di voler provvedere all’annullamento dell’atto in via di autotutela per l’assenza di danno erariale, ma a fronte della specifica contestazione dell’ufficio non ha poi offerto alcuna prova; anzi è stata prodotta una nota dell’Ufficio, peraltro posteriore allo spirare dei termini per impugnare la cartella, affermante che l’obbligo del versamento delle somme scaturenti dalla liquidazione IVA mensile rimaneva in vigore.

Secondo la Corte territoriale, quindi, nella specie non è ravvisabile alcun ragionevole, legittimo affidamento della contribuente.

Di conseguenza, non può essere accolta l’istanza di rimessione in termini: non vi è prova, infatti, che la ricorrente sia incorsa nella decadenza dall’impugnazione della cartella “per causa ad essa non imputabile”; la scelta di non impugnare la cartella può essere dipesa da svista, dimenticanza od altro, ma non dal dedotto (e indimostrato) affidamento su ciò che avrebbero lasciato intendere i funzionari dell’Ufficio.

Così si esprime la Commissione: “Invero l’art. 153 c.p.c. dispone che se la parte “dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini”. L’istituto in esame fonda dunque la propria ‘ratio’ sul principio di “non imputabilità” alla parte processuale della causa che ha determinato la decadenza; “non imputabilità” nella specie non ravvisabile se non nella soggettiva “convinzione” della contribuente, non suffragata da alcun documento od altro elemento, che la sua istanza di annullamento in autotutela sarebbe stata accolta. Di più, in linea generale, tale particolare tale rimedio, di natura esclusivamente processuale, non è esperibile per “rimettere in gioco” l’impugnazione dell’avviso di accertamento o della cartella che non sia stata proposta entro i perentori termini di legge. La rimessione in termini disciplinata dal codice di procedura civile, applicabile anche al processo tributario in forza del richiamo di cui all’art. 1 D. Lgs. n. 546/92, riguarda esclusivamente le decadenze in cui le parti siano incorse nell’attività processuale (come, per esempio, la produzione di documenti o il deposito di memorie illustrative), senza possibilità di estensione alle decadenze relative all’impugnazione.

Tale istituto processuale attiene dunque ad eventuali nullità, di ordine endoprocessuale, determinatesi nel corso del processo, in cui le parti siano incorse per cause ad esse non imputabili. Ciò vale a maggior ragione nel caso del contenzioso tributario, dove la proposizione dell’atto introduttivo del giudizio è sottoposto a formalità e termini previsti a pena di inammissibilità dell’atto stesso”.

Precedenti conformi

Dall’analisi delle pronunce di Cassazione, emanate negli ultimi anni, in materia affiora un quadro giurisprudenziale molto articolato – e non sempre coerente – in materia di rimessione in termini.

Un primo precedente conforme alla statuizione in commento è rappresentato da Cass. n. 11062/06, il cui principio di diritto è riassumibile nei seguenti termini: << la rimessione in termini di cui all’art. 184 c.p.c. concerne esclusivamente la fase istruttoria di primo grado e non è applicabile all’impugnazione degli atti di accertamento, in quanto la omessa impugnazione determina per espressa previsione di legge la decadenza del contribuente dal diritto ad impugnare, senza possibilità di estensione a situazioni “esterne”, quali l’impugnazione, non essendo consentito al giudice alcun intervento in ordine al decorso dei termini se non nei casi tassativamente indicati dalla legge >>.

Ancor più esplicita si presenta la pronuncia Cass. 5474/2006: <>.

Precedenti difformi

Su di un piano diametralmente opposto si pone la recente Cass. n. 9279/2013, secondo cui “l’istituto della rimessione in termini, previsto dall’art. 184 bis c.p.c., trova applicazione non solo con riguardo alla decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione, per tale dovendo, peraltro, intendersi – nella prospettiva di allargamento delle garanzie giustiziali – anche il diritto alla proposizione del ricorso avverso atti tributari. Per il che – contrariamente all’assunto dell’Amministrazione ricorrente – l’istituto in parola si applica anche al processo tributario, e pure in relazione a situazioni esterne al suo svolgimento, quale l’impugnazione degli atti impositivi”.

Ancora Cass. n. 3277/2012 stabilisce che: “il furto degli atti elencati nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, avvenuto nel corso del termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso stabilito dal successivo art. 21, costituisce indubbiamente evento suscettibile di essere valutato dal giudice ai fini di disporre la rimessione in termini del soggetto interessato, che sia incorso nella decadenza dal diritto d’impugnazione, ai sensi dell’art. 184 bis cod. proc. civ.: tale norma, infatti, letta alla luce dei principi costituzionali di tutela delle garanzie difensive e del giusto processo, trova applicazione non solo nel caso di decadenza dai poteri processuali interni al giudizio, ma anche a situazioni esterne al suo svolgimento, quale la decadenza dal diritto di impugnazione (cfr. Cass. nn. 14627, 17704 e 22245 del 2010, 98 del 2011), e questo va inteso in senso lato, comprensivo, quindi, anche del diritto alla proposizione del ricorso avverso atti tributari.

L’istituto della rimessione in termini, tuttavia, non può che operare in relazione allo specifico atto riguardo al quale si è verificata la decadenza, e quindi solo in sede di impugnazione – sia pur tardiva dell’atto stesso, mentre non può essere invocato in sede di giudizio relativo ad un atto successivo autonomamente impugnabile.

Nella specie, in sostanza, la ricorrente avrebbe dovuto comunque impugnare l’avviso di liquidazione (eventualmente dopo essersene procurata nel termine, se possibile, o fuori termine, e in quest’ultimo caso chiedere in quella sede al giudice l’inoperatività della decadenza ai sensi del citato art. 184 bis c.p.c., anzichè restare inerte ed impugnare dopo oltre due anni la cartella di pagamento, quando ormai l’atto prodromico era irrimediabilmente divenuto definitivo”.

Ed in aggiunta, Cass. n. 17704/2010: “Le S.U. di questa Corte, con sentenza n. 627/2008, hanno statuito l’applicabilità della disciplina della rimessione in termini di cui all’art. 184 bis, anche oltre la fase istruttoria del procedimento di primo grado ed in particolare al giudizio di cassazione (in questi termini di applicabilità generalizzata della rimessione in termini, peraltro, statuisce l’art. 153 c.p.c., comma 2, aggiunto dalla L. n. 69 del 2009, art. 2).

Risulta, quindi, superata la riferibilità della rimessione alle sole decadenze dai poteri processuali della parte interni al giudizio di primo grado ma non anche alle decadenze relative ai poteri processuali esterni a tale giudizio, quali quelle derivanti dal decorso dei termini per la proposizione dell’azione o dell’impugnazione.

E’ stato condivisibilmente affermato che militano in tal senso sia le innovazioni apportate all’art. 184 bis c.p.c., con la soppressione del riferimento alle sole decadenze previste negli artt. 183 e 184 c.p.c., sia i recenti richiami della Corte costituzionale in ordine alle esigenze di certezza ed effettività delle garanzie difensive nel processo civile, sia il difetto di situazioni di incompatibilità tra la norma in questione e le peculiarità del giudizio di Cassazione. Non può del resto omettersi di tener conto della garanzia costituzionale dell’effettività del contraddittorio posta dal nuovo testo dell’art. 111 Cost., comma 2, sicché la regola dell’improrogabilità dei termini perentori posta dall’art. 153 c.p.c., non può costituire ostacolo al ripristino del contraddittorio quante volte la parte si vedrebbe dichiarare decaduta dall’impugnazione, per un fatto incolpevole che si collochi del tutto al di fuori della sua sfera di controllo e che avrebbe, altrimenti, un effetto lesivo del suo diritto di difesa in violazione dell’art. 24 Cost.. Peraltro il principio della scusabilità dell’errore attiene ad un principio tendenzialmente generale del nostro ordinamento e l’opzione sopra propugnata dell’applicazione generalizzata dell’istituto di cui all’art. 184 bis si pone in armonia con la soluzione attualmente adottata dall’art. 153 c.p.c., comma 2. 4.3. Ciò a maggior ragione comporta l’applicabilità dell’art. 184 bis anche al giudizio di appello, tenuto conto della norma di rinvio alla disciplina del primo grado, di cui all’art. 359 c.p.c.”.

Il deciso

La sentenza in commento si pone nel solco della tradizione ermeneutica votata all’interpretazione restrittiva dell’istituto della rimessione in termini, limitando lo stesso alla sola fase istruttoria di primo grado, con conseguenze non sempre coerenti con il principio di difesa ex art. 24 Cost.

Conclusioni operative sulla scusabilità dell’errore

Per comprendere appieno la funzione dell’istituto della rimessione in termini è opportuno richiamare il concetto di “errore scusabile”, quale paradigma della non imputabilità della causa di decadenza dall’attività processuale.

Invero, tale concetto sta assumendo una rilevanza sempre maggiore in ambito tributario, sia per l’aumento degli obblighi fiscali gravanti sui contribuenti, spesso ritoccati in itinere, sia per le complessità ermeneutiche connesse all’adempimento degli stessi.

Nel caso della sentenza che si commenta, la società contribuente chiedeva di essere rimessa in termini in virtù della norma contenuta nell’art. 10 comma 3 della L. 212/2000 c.d. Statuto del Contribuente, lamentando proprio la mera violazione formale della norma di legge.

Tale comma statuisce che “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta”.

Con l’emanazione, ad opera dell’Agenzia delle Entrate, della circ. n. 77/E del 3 agosto 2001, si effettua un esame dell’art. 6, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 472/1997, la quale, in attuazione del comma 3 dell’art. 10 della L. n. 212/2000, prevedente la non punibilità degli atti o comportamenti che si traducevano “in una mera violazione formale, senza alcun debito di imposta”, perviene alla definizione delle violazioni non soggette a punibilità, in presenza di diverse condizioni negative, e precisamente richiede che il comportamento posto in atto: a) non abbia generato la determinazione di una base imponibile diversa da quella che si sarebbe configurata in assenza dell’errore; b) non abbia determinato un’imposta diversa da quella dovuta; c) non abbia dato luogo a versamenti inesatti di tributi; d) non abbia arrecato pregiudizio all’azione di controllo dell’Amministrazione finanziaria.

La circolare specifica che tali condizioni sono alternative e che non possono esser richiamate laddove risultino di ostacolo all’attività di ispezione e controllo fiscale.

La dottrina si è interrogata sul discrimen tra le violazioni “meramente formali” e quelle formali ancora passibili di sanzione, considerato che la circolare non offre una risposta univoca a tale interrogativo, lasciando liberi gli Uffici di operare discrezionalmente un’analisi valutativa circa la specifica casistica di ogni comportamento qualificabile come violazione di tipo formale.

La circolare richiama, a tal fine, alcune ipotesi, ritenendole significative, affermando che l’esimente in esame non trova applicazione per quelle violazioni, pur sempre formali, aventi ad oggetto la presentazione, entro termini predeterminati normativamente, di atti che, per definizione, sono soggetti a controllo.

In questo senso la prassi richiama – fra le altre – l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi nel caso in cui non son dovute imposte, la cui sanzione è prevista dall’articolo 1, comma 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 471 del 1997).

Sono, inoltre, sanzionabili tutte le violazioni per le quali l’esistenza del pregiudizio all’attività di controllo risulta manifesta, per essere quest’ultima già iniziata, quali le violazioni consistenti nella mancata o tardiva restituzione di un questionario inviato al contribuente o nell’inottemperanza all’invito a comparire in ufficio, pur dovendosi considerare di natura formale continuano ad essere sanzionabili ai sensi dell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 471 del 1997, perché arrecano sempre pregiudizio alla già avviata attività di controllo.

La circolare prosegue, individuando un’ulteriore, rilevante ipotesi di violazione formale, comunque sanzionabile, nella omessa tenuta di scritture contabili prescritte dalle leggi in materia d’imposte dirette e iva e il rifiuto da parte del contribuente della citata documentazione richiesta in sede di accessi eseguiti ai fini dell’accertamento delle stesse imposte.

Può succedere che il contribuente, pur avendo regolarmente tenuto le scritture contabili, ne rifiuti l’esibizione, ovvero la ometta, talvolta anche a causa di eventi fortuiti, ma non palesi (calamità naturali o eventi accidentali): ad esempio, al caso in cui non siano reperibili, al momento della richiesta ad opera dei verificatori, le distinte analitiche inerenti le rimanenze di magazzino.

A questo punto, verrebbe tuttavia spontaneo porsi alcuni quesiti circa, ad esempio, la possibile sostenibilità della non punibilità, anche con riferimento alle stesse ipotesi espressamente richiamate dalla circolare, eventualmente tramite ricorso al competente organo di giurisdizione tributaria, o, preliminarmente, previa istanza di autotutela da presentare allo stesso ufficio che ha irrogato la sanzione in questione, perché annulli l’atto relativo.

In quest’ultimo senso si era comportato il contribuente in questione, prima di opporre (tardivamente) ricorso.

La dottrina ha notato come, anche laddove il comportamento erroneo od omissivo del contribuente costituisca una qualche forma di ostacolo per l’attività di controllo, possano nondimeno configurarsi ipotesi nelle quali tale “impedimento” sarà agevolmente rimosso, ovvero ne saranno “neutralizzati” i nefasti effetti. Ebbene, anche in tali ipotesi, secondo questa dottrina, verrebbe meno la sanzionabilità prevista dalla norma, stante l’assenza di “reale pregiudizio” per i verificatori, facendo applicazione del principio di offensività della condotta.

Così come permangono in dottrina dubbi circa la sottoponibilità a trattamento sanzionatorio di semplici ritardi nell’adempimento di obblighi statuiti dalla vigente normativa tributaria (ad esempio ritardata presentazione di dichiarazioni fiscali).

In argomento, la stessa prassi ministeriale si è espressa favorevolmente, con riguardo alla presentazione a mezzo invio telematico delle dichiarazioni fiscali, affermando che un modesto ritardo (nuovo invio effettuato entro cinque giorni dalla data di restituzione delle ricevute con cui viene indicato lo “scarto” e la relativa motivazione) non può ritenersi in alcun modo dannoso, nei confronti dell’azione di controllo degli uffici preposti.

Si nota, quindi, un’evoluzione del concetto di errore scusabile, mirante – in qualche modo – ad ampliare gli ambiti di “salvezza” della condotta del contribuente.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Sezione n. 5
Reg. Generale n. 1968/12
Udienza del 04/12/2013 ore 09:00
Sentenza n. 95
Pronunciata il 4 dic. 2013
Depositata in segreteria il 18 dic. 2013

La Commissione Tributaria Provinciale di Firenze

riunita con l’intervento dei Signori:
BELLAGAMBA GIOVANNI Presidente
RADOS BRUNO Relatore
PIZZOCOLO ROBERTO Giudice

ha emesso la seguente

SENTENZA

– sul ricorso n. 1968/12
depositato il 10/10/2012

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n° 04120120014423886 IVA-ALTRO 2008

– avverso DIN. AUTOTUTELA n° IST. PROT. 65917/12 IVA-ALTRO 2008
contro: AG. ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE FIRENZE

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n° 04120120014423886 IVA-ALTRO 2008
contro: AGENTE DI RISCOSSIONE BOLOGNA EQUITALIA CENTRO S.P.A.

proposto dal ricorrente:
DREAM 21 S.R.L. GIÀ S.F.I.T. S.R.L.
VIALE DEI CONDOTTI N. 91 00100 ROMA RM

difeso da:
PARATORE AVV. SALVATORE
VIA P. VILLARI 9 50136 FIRENZE FI

IN FATTO E IN DIRITTO

Con ricorso presentato il 10.10.2012 la Dream 21 s.r.l. chiede impugna il diniego di annullamento in autotutela con cui l’Agenzia delle Entrate di Firenze ha respinto l’istanza presentata il 24.07.2012 per l’annullamento del ruolo ordinario esecutivo n. 20127250044 e la relativa cartella di pagamento n. 041 2012 0144238 86 emessa dall’Ufficio per l’importo di € 218.851,91=, preteso a titolo di sanzione pecuniaria per tardivo versamento dell’IVA relativamente all’anno 2008.

Espone la ricorrente che nella dichiarazione annuale IVA per anno 2008 essa riportava nel mese di dicembre un’imposta a debito “provvisoria” di € 686.919,00=, che non versava in quanto dalla stessa dichiarazione annuale scaturiva un’imposta a credito di € 93.426,00=.

Assumendo che in sostanza il Fisco pretende irrogare una sanzione di importo così elevato per una violazione meramente formale che non ha cagionato alcun danno all’Erario, tant’è che non viene richiesto il versamento di alcuna maggiore imposta, la Dream 21 s.r.l. eccepisce l’illegittimità del diniego di annullamento in autotutela per violazione dell’art. 10 Statuto diritti del contribuente sia per mancanza di danno erariale, sia per il principio dell’affidamento insorto in essa dal comportamento dell’Ufficio. Poiché ad oggi sono scaduti i termini per l’impugnazione del ruolo e della relativa cartella di pagamento, chiede – in ipotesi – la remissione in termini ai sensi degli artt. 153 c.p.c. e 21 D. Lgs. n. 546/92.

Si è costituito l’Ufficio, chiedendo il rigetto del ricorso siccome infondato.

Osserva la Commissione che la questione dell’impugnabilità del diniego di autotutela è stata definitivamente risolta dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la quale con la sent. 27 marzo 2007 n. 7388, ha statuito che la mancata inclusione di tale atto in quelli elencati nell’art. 19 comma I D. Lgs. N. 546/92 comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 della Costituzione, di modo che non è dubbia l’impugnabilità da parte del contribuente degli atti di diniego di autotutela dell’Amministrazione Finanziaria.

Ma, tanto premesso, si rileva che nella specie la Dream 21 incentra il proprio ricorso sulla illegittimità nel merito del mancato annullamento della cartella, laddove contro il rifiuto espresso di autotutela può esercitarsi soltanto un sindacato sulla legittimità del rifiuto stesso e non anche sulla fondatezza della pretesa tributaria, perché ciò comporterebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa propria dell’Amministrazione finanziaria.

Il ricorso deve pertanto considerarsi inammissibile sia sotto il profilo della discrezionalità nell’esercizio del potere di autotutela, sia sotto il profilo della definitività dell’atto impositivo per omessa impugnazione.

In primo luogo, con ordinanza n. 10020 del 18 giugno 2012 la S.C. ha ribadito che contro il diniego dell’amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria (cfr. Cass. n. 11457/2010; n. 16097/2009): fuori da tale ipotesi, l’atto con il quale l’amministrazione finanziaria manifesta il rifiuto di annullare in autotutela un atto impositivo divenuto definitivo non è suscettibile, stante la relativa discrezionalità, di essere impugnato innanzi alle commissioni tributarie (v. Cass. Sez. Un. n. 3698/2009).

Infine, con la sentenza n. 7687 del 16 maggio 2012 Cass. Civ. Sez. V, dopo aver ribadito che l’elencazione tassativa degli atti impugnabili innanzi al giudice tributario (art. 19 cit.) non esclude la facoltà del contribuente di impugnare innanzi al medesimo giudice anche atti diversi da quelli contenuti in detto elenco, conclude affermando che “questa Corte ha da tempo chiarito che, nel giudizio relativo al diniego di autotutela, il sindacato del giudice tributario ha per oggetto il corretto esercizio di un potere ampiamente discrezionale; sicché il giudice non può comunque sostituirsi all’amministrazione in valutazioni discrezionali, né ivi sindacare la fondatezza della pretesa tributaria.”

La Corte precisa che il diniego di annullamento equivale sempre a conferma del precedente provvedimento e che, tuttavia, per regola generale di diritto processuale, il mero atto di conferma non è un atto in quanto tale impugnabile, non potendosi per tale via incidere sul termine di impugnazione dell’atto originario (che, come sottolinea l’Ufficio, è il reale scopo principale espresso dall’attuale ricorrente).

In definitiva, essendo l’attività di autotutela contrassegnata da ampia discrezionalità non surrogabile in via giudiziaria, contro il diniego di procedere all’esercizio di tale potere non può essere proposta impugnazione in sede giurisdizionale se non nei limiti già detti, cioè per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto in sé, al di là della contestazione della pretesa tributaria originaria; profili di illegittimità che nella specie non sono stati sollevati dalla ricorrente, il cui unico assunto è che la cartella non avrebbe dovuto irrogare le sanzioni in quanto il comportamento censurato costituisce una mera violazione formale e non sostanziale.

E’ pertanto evidente come nel caso in esame non sia in contestazione la legittimità o meno del procedimento di autotutela, ma soltanto la legittimità o meno della pretesa tributaria contenuta nell’atto ormai definitivo.

Poiché oggetto di impugnazione non può essere la cartella di pagamento, ormai definitiva perché non impugnata nei termini, l’impugnazione in questa sede del diniego di autotutela, non censurabile nel merito della pretesa, è inammissibile, palesandosi essa soltanto come un mezzo per tornare a contestare nel merito la cartella non tempestivamente impugnata.

Quali che siano le perplessità che possano sorgere sulla pretesa in esame sotto il profilo ‘sostanziale’ (violazione ‘formale’), rimane il fatto che la mancata impugnazione della cartella è dovuta ad una scelta consapevole della odierna ricorrente, non imputabile all’Amministrazione; scelta di non presentare ricorso nei termini che non è in alcun modo giustificata dal fatto – allegato ma non dimostrato dalla ricorrente – che “visti i rapporti intercorsi con l’Ufficio successivamente alla presentazione dell’istanza la società ha confidato in buona fede nel suo accoglimento”.

Si osserva al riguardo che la contribuente afferma che i funzionari dell’Ufficio avrebbero lasciato intendere che avrebbero annullato l’atto in via di autotutela per l’assenza di danno erariale, ma a fronte della specifica contestazione dell’Ufficio non ha offerto alcuna prova sul punto, tant’è che finisce con l’invocare a proprio favore il tenore – peraltro riportato solo parzialmente – della nota/provvedimento dell’Ufficio in data 6 luglio 2012, cioè posteriore allo spirare dei termini per impugnare la cartella, ove allo scritto “la liquidazione IVA del mese di dicembre è stata correttamente effettuata con la determinazione di un importo a debito”, va aggiunto il resto del testo, che recita “ma tale adempimento non è stato eseguito e soltanto successivamente, ovvero in sede di liquidazione annuale dell’IVA, scaturisce un importo a credito. Da quanto sopra pertanto si rileva che l’obbligo del versamento della liquidazione IVA mensile a debito rimaneva in vigore…”. (v. doc. 1 all. Ricorso).

Ne consegue che nella specie non è ravvisabile alcun ragionevole, legittimo affidamento nella contribuente.

Per lo stesso ordine di ragioni non può essere accolta l’istanza subordinata di rimessione in termini: non vi è prova infatti che la ricorrente sia incorsa nella decadenza dall’impugnazione della cartella “per causa ad essa non imputabile”: la scelta di non impugnare la cartella può essere dipesa da svista, dimenticanza od altro, ma non dal dedotto (e indimostrato) affidamento su ciò che avrebbero lasciato intendere i funzionari dell’Ufficio.

Invero l’art. 153 c.p.c. dispone che se la parte “dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini”. L’istituto in esame fonda dunque la propria ‘ratio’ sul principio di “non imputabilità” alla parte processuale della causa che ha determinato la decadenza; “non imputabilità” nella specie non ravvisabile se non nella soggettiva “convinzione” della contribuente, non suffragata da alcun documento e/o altro elemento, che la sua istanza di annullamento in autotutela sarebbe stata accolta.

Di più, in linea generale, tale particolare tale rimedio, di natura esclusivamente processuale, non è esperibile per “rimettere in gioco” l’impugnazione dell’avviso di accertamento o della cartella che non sia stata proposta entro i perentori termini di legge: v. sul punto Cass. n. 11062/06, secondo cui “la rimessione in termini di cui all’art. 184 del codice di procedura civile concerne esclusivamente la fase istruttoria di primo grado e non è applicabile alla impugnazione degli atti di accertamento, in quanto la omessa impugnazione determina per espressa previsione di legge la decadenza del contribuente dal diritto ad impugnare”, senza possibilità di estensione a situazioni “esterne”, quali l’impugnazione, non essendo consentito al giudice alcun intervento in ordine al decorso dei termini se non nei casi tassativamente indicati dalla legge”.

La rimessione in termini disciplinata dal codice di procedura civile, applicabile anche al processo tributario in forza del richiamo di cui all’art. 1 D. Lgs. n. 546/92, riguarda esclusivamente le decadenze in cui le parti siano incorse nell’attività processuale (come, per esempio, la produzione di documenti o il deposito di memorie illustrative), senza possibilità di estensione alle decadenze relative all’impugnazione. Tale istituto processuale attiene dunque ad eventuali nullità, di ordine endoprocessuale, determinatesi nel corso del processo, in cui le parti siano incorse per cause ad esse non imputabili. Ciò vale a maggior ragione nel caso del contenzioso tributario, dove la proposizione dell’atto introduttivo del giudizio è sottoposto a formalità e termini previsti a pena di inammissibilità dell’atto stesso.

Ricorrono giusti motivi, atteso il carattere essenzialmente ‘formale’ della violazione contestata, per dichiarare interamente compensate le spese del giudizio fra le parti.

P.Q.M.

La Commissione respinge il ricorso.

Spese compensate.

Firenze, 4 dicembre 2013

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